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Profumo. Storia di un assassino

Regia di Tom Tykwer vedi scheda film

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La recensione su Profumo. Storia di un assassino

di giancarlo visitilli
4 stelle

Il romanzo “Profumo”, di Patrick Süskind, pubblicato nel 1985 rimane un capolavoro, oltre che uno dei romanzi più fortunati nella storia della letteratura tedesca (15 milioni di copie vendute nel mondo). Ma chi crede che per forza bisogna adattare i romanzi al grande schermo sbaglia, quasi sempre. Questa volta è toccato al regista Tom Tykwer (Lola corre, La principessa + il guerriero) barcamenarsi in un progetto, complesso e seducente, per il quale amoreggiavano da anni, addirittura Kubrick, Scorsese e Forman.
Non possiamo non tener conto che il regista tedesco si è trovato tra le mani una materia estremamente difficile da dominare: l’universo impenetrabile degli odori. Altrettanto, però, non si può fare a meno di notare l’eccessivo stordimento a cui conduce l’intera opera, non per merito degli odori, quanto per la noia mostruosa che dura la bellezza di 147 minuti. Chi resiste, non sviene, ma, annoiandosi, segue il cammino di Jean-Baptiste Grenouille, una “tra le figure più geniali e scellerate” della Francia del XVIII secolo. Un rifiuto umano e artista, dallo sguardo innocente, ma incisivo, e soprattutto dalla mano assassina. Con Grenouille, che è dotato di un olfatto acutissimo, da poter far propri tutti gli odori del mondo, anche a grandi distanze, ci si incammina lungo la strada che conduce l’umanità verso la perdizione, per merito della propria diversità, per la mancanza d’amore e di attenzione. L’orrifica fiaba, anche questa volta, come in tutti i film precedenti di Tykwer, si concentra sul personaggio apparentemente innocente, ma pronto all’efferata azione di uccidere le vergini di Grasse, per distillarne il loro profumo estatico.
La rivelazione della Royal Academy, il 26enne Ben Whishaw (L’amore fatale) è un grande e perfetto attore, che riesce a supportare la storia dall’inizio alla fine, offrendoci una serie di impressionanti maschere, sempre tra l’orrorifico e l’ingenuità fanciullesca. Senza una sola parola e utilizzando l’unico strumento di comunicazione: il naso.
Pedante, invece, la voce fuori campo, che pur leggendo testualmente le belle pagine scritte da Süskind, risulta eccessivamente invasiva all’interno della storia. Molto belle le scenografie (all’incirca un centinaio), utilizzate per la ricostruzione della Francia del ‘700, delle botteghe, dei laboratori e dell’intera città.
Certamente a creare una sorta di immediata stanchezza nei confronti dell’intera storia è proprio l’incapacità del regista di farci pervenire immediatamente, come nel romanzo, almeno quei minimi cenni che servono ad entrare nel tormento di Grenouille. Non bastano i primissimi piani, l’indagine minuziosa dei corpi, per allibire lo spettatore, merito anche di un’eccellente fotografia (Frank Griebe), e i suoi raffinati giochi di luci ed ombre caravaggesche.
Alla fine, non servono neanche le spettacolari immagini della Woodstock del XVIII secolo: manca la musica. Il rock. La verve. E se confrontare il raduno degli anni Sessanta è eccessivo con le immagini finali del film di Tykwer, a proposito del romanzo di Süskind, può senz’altro valere il detto “film (come questi) volit, scripta manent”.
Giancarlo Visitilli

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