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Due ore ancora

Regia di Rudolph Maté vedi scheda film

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La recensione su Due ore ancora

di spopola
8 stelle

Un incubo che travolge un uomo condannato inappellabilmente da un destino crudele e beffardo che stringe all’essenziale i concetti Di una storia che parla semplicemente di un provinciale che arriva nella grande città, ne vive il caos frastornante del sentirsi straniero fra sconosciuti e viene così sopraffatto e risucchiato dalle proprie paure.

Quel che conta di più nella felice riuscita di  questo film è probabilmente il soggetto (così intrigante da essere approdato più volte, e in differente forma,  sul grande schermo: derivato da un film tedesco del 1931 inedito in Italia, Der Mann, der seine Mörder sucht diretto Robert Siodmak e sceneggiato – udite, udite – da un ancor giovanissimo Billy Wilder, è stato successivamente rifatto in maniera meno incisivamente smagliante come L’uomo che doveva uccidere il suo assassino con la regia di Eddie Davis, nel 1969, e come D.O.A. Cadavere in arrivo con la regia di Annabel Janker, nel 1988, dove D.O.A. – che poi era anche il titolo originale della presente pellicola – sta per la sigla medica  dead on arrival che, tradotta, significa morte all’arrivo in ospedale e serve ad indicare i malati  o i feriti senza speranza).
Qui la rielaborazione del racconto ad opera di Russell Rause e Clarence Green, si estrinseca in una sorprendente sceneggiatura, appesantita forse da un eccessivo utilizzo dei colpi di scena e delle trovate – come il veleno “luminescente” che non ha antidoto – ma che pone al suo attivo una fortissima dose di inventiva (alcune delle situazioni più bizzarre e originali che si riscontrano nel cinema di quel periodo, sono state concepite proprio per questa pellicola) così in bilico fra il concreto e l’impossibile, da far considerare il film, proprio per questa sua peculiarità, un’opera che si colloca davvero a metà strada fra l’eccentricità un po’ visionaria dell’incubo noir che caratterizzava appunto il genere in quegli anni, e il semplice gusto della trovata a effetto (Renato Venturelli) che se ne infischia persino della logicità oggettiva.
La premessa è comunque geniale, così come la pesante atmosfera di angoscia che le è stata creata intorno, proprio perchè  inserita in un realismo di immagini che ne accentua fortemente l’impatto (il film è stato quasi tutto girato in esterni a San Francisco e Los Angeles, con una dose di autenticità che lo fa diventare un suspense ben oleato e trascinante, anche se sempre a un passo dall’abisso).
Il regista è Rudolph Maté (prima di approdare ad Hollywood straordinario e prestigioso direttore della fotografia di alcuni capolavori di Dreyer quali La passione di Giovanna D’Arco e Vampyr) qui perfettamente a suo agio come poche altre volte, e assolutamente impeccabile nel mantenere sempre alta quella tensione a cui accennavo sopra (si vedano al riguardo come esempi specifici, sia la bellissima  scena d’apertura, che la rocambolesca  fuga del protagonista costretto a rifugiarsi dentro un drugstore) ma che può offrire solo una diligente e abile, per quanto efficace, prestazione che è senz’altro in grado di assecondare il progetto con indubbio rigore anche stilistico, senza  però quei guizzi necessari a farlo diventare superlativo nel risultato, che non erano oggettivamente nelle sue corde, poiché è sempre stato poco più di un abile artigiano (questo deve essergli riconosciuto, anche se limitatamente alla fase iniziale della sua carriera americana, senza però poter andare molto oltre perchè – e le successive tappe del suo lavoro lo stanno a confermare – aveva nella regìa  una personalità piuttosto anonima, che non gli ha mai consentito, così come è richiesto a un effettivo autore compiutamente geniale,  di emergere davvero come “artista a tutto campo”).
Questo Due ore ancora è indubbiamente il suo fiore all’occhiello (il resto è poca cosa, se si esclude il successivo L’ultima preda e il più frequentemente citato  All’alba non sarete vivi conosciuto anche come Pazzia, ma che ha davvero molti – troppi  - debiti di riconoscenza ispirativa per essere del tutto autonomo, verso Vicolo cieco di Charles Vidor che è del 1939) e che rimane a tutti gli effetti il risultato migliore che sia  stato in grado di consegnare ai posteri, ma grazie anche alle ingegnose qualità di uno script davvero speciale che dietro a una prima lettura che può sembrare – ammettiamolo francamente - persino un tantino tendente al fantascientifico (qualche congegno  è un po’ paradossale) consente di farne un’altra che alla luce dell’oggi, risulta forse ancor più realisticamente coinvolgente, perché  proprio analizzando l’opera da questa differente visuale, si può azzardare l’ipotesi, metaforizzando un poco, di essere di fronte a “un classico della paranoia urbana” poiché stringendo i concetti all’essenza della storia,  semplificando insomma, in fondo si parla semplicemente di un provinciale che arriva nella grande città, ne vive il caos frastornante del sentirsi straniero fra sconosciuti, fino ad essere sopraffatto e risucchiato tragicamente dalle proprie paure.
L’incubo però risulta essere questa volta fra i più radicali e definitivi, di quelli che esasperano fino alle estreme conseguenze il discorso e le paranoie – qui portate avanti in prima persona - di un uomo condannato inappellabilmente da un destino crudele e beffardo (un anonimo signore che lo spettatore ancora non è in grado di identificare,  né di riconoscere, che  nell’incipit  irrompe disperato in un ufficio di polizia asserendo di essere sul punto di morire. Apprenderemo poi in flash-back che si tratta di un contabile di provincia che durante un soggiorno a San Francisco si è trovato quasi casualmente in un bar a consumare del bourbon insieme a un  occasionale compagno di bevute, e che scoprirà di lì a poco, di aver così inconsapevolmente inghiottito un veleno destinato ad ucciderlo nel giro di pochi giorni. Un uomo  disperato dunque che si sta trascinando  sempre più sfinito per le strade, spaventato e  quasi incredulo, alla ricerca di un introvabile e forse inesistente antidoto, che cerca di capire anche chi e perché vuole ucciderlo con una modalità così terribile, senza però riuscire non solo a  rintracciare qualcosa che sia in grado di arrestare l’avanzare inesorabile della morte nel suo corpo, ma anche ad individuare una motivazione validamente concreta per tutto ciò che gli sta accadendo).
A differenza di quanto avviene di solito in queste discese allucinate nell’ignoto, qui il percorso del protagonista, per quanto attanagliato dall’angoscia di chi si trova all’improvviso al di fuori di ogni logica razionale, non è punteggiato dal consueto corollario rappresentato da una galleria infinita di personaggi grotteschi e di situazioni disturbanti che di solito ci viene propinato. Al contrario invece, l’uomo incontrerà per lo più individui perfettamente inseriti nella quotidianità, ripresi in maniera fortemente realistica, con una tecnica del tutto estranea  alle deformazioni di  stampo espressionista, e quindi intrisi di una “normalità “ di un vissuto che, al di là del paradosso, ci fa concentrare soprattutto sulla terrificante riflessione della  progressione disgregante della morte all’interno di un corpo sempre più contaminato.
Qui ad essere in ballo e in primo piano allora,  molto più  degli incubi dell’inconscio di metà decennio o della fisicità malata di tanti noir di fine anni quaranta,  è proprio l’implacabile escalation quasi meccanica degli avvenimenti che spinge a volte il pensiero verso la dimensione dell’assurdo (ma di kafkiana memoria direi) poiché siamo di fronte a un uomo che, sapendo di dover morire, cerca disperatamente una spiegazione a tutto quello che gli sta accadendo e arriva a una risposta banale ed insensata come la vita. E’ troppo semplicistico o azzardato allora dire che il procedere dell’indagine e la conseguente scoperta della verità, non approdano ad alcuna possibilità di salvezza, ma solo alla constatazione dell’assurdo dell’esistenza, dove la morte è l’unica conclusione certa (e che per questo il discorso diventa così persino metafisico?). Potrebbe darsi… ma io mi ci provo lo stesso e butto là l’ipotesi (poiché per me è proprio questo l’elemento più significativamente concreto che positivizza il risultato ancora ai giorni nostri) sostenuto per altro in questo, dall’ausilio di un commento musicale (di Dimitri Tiomkin) più che insolito, in antitesi con i canoni dell’epoca, che risulta attraversato da una straniata vena di ironia non tanto sottotraccia. 
Il protagonista è uno sconvolto, disperato Edmond O’Brient. Gli fanno da corollario, Neville Brand, Luther Adler, Pamela Britton e Beverly Campbell, successivamente finita nel mirino della commissione McCarthy che, dopo ben 5 anni di forzata inattività (ma questa vuole essere solo una nota di colore per riportarci al clima malato di quei tempi) riuscì finalmente a tornare, se non proprio alla “ribalta della notorietà”, per lo meno al lavoro (ma utilizzata principalmente per secondarie pellicole del filone horror), seppure con il nome modificato in Beverly Garland.

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