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Bobby

Regia di Emilio Estevez vedi scheda film

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La recensione su Bobby

di spopola
8 stelle

AGGIORNAMENTO OPINIONE. Ha scelto con coraggio l’impervia strada dell’affresco corale Emilio Estevez per il suo Bobby, e possiamo ben dire che la scommessa, decisamente “ostica” sulla carta, è stata invece ampiamente vinta perché i risultati sono - più che apprezzabili - decisamente positivi. Dobbiamo comunque ammettere (ma sarebbe davvero una disquisizione tutto sommato inutile e persino superflua, perché quel che conta è l’impatto complessivo dell’impresa, e questo c’è ed è fortemente coinvolgente) che non tutto procede alla “stessa velocità” e livello (soprattutto nella prima parte) e che qualche passaggio risulta un po’ forzato, così come non tutti i personaggi della vasta galleria (ben 22) risultano messi a fuoco con la stessa ”lucidità” e nitore, tanto che alcune delle storie più marginali (o superflue) finiscono persino per “smarrirsi” durante il tragitto.
Non facciamone allora una questione di “lana caprina” riconoscendo al regista, in pratica qui alla sua prima vera prova impegnata e seriamente significativa (se valutiamo oggettivamente ciò che aveva prodotto in precedenza spesso risibile e “incolore”), tutta l’ardimentosa dedizione dimostrata nel decidere di “raccontare” la tragicità dell’evento che sta al centro del progetto, semplicemente rappresentando il “contorno”, il contesto e le persone che animano lo scenario, secondo un tracciato “altmaniano” che richiede una perizia e una “spudoratezza” anche tecnica notevolissima, oltre che una chiarezza di sguardo che permetta un adeguato dominio della materia, affinché non ci siano eccessive sbavature e dispersioni, così che alla fine davvero i principali pezzi del mosaico si coagulino fra loro trovando i giusti incastri per riprodurre il “disegno originale” senza disperderne le valenze politiche e sociali. Ed è proprio con questo obiettivo che Estevez anziché concentrarsi sulla storicizzazione della “figura” centrale di Robert Kennedy, preferisce soffermarsi a riflettere (costringendoci a fare altrettanto) su ciò che ha effettivamente rappresentato la sua persona (al di là di ciò che effettivamente era), estrapolando in primo piano le speranze e le illusioni che aveva saputo alimentare il suo “progetto politico”, purtroppo prematuramente (e definitivamente) soffocate da quei colpi di pistola sparati a bruciapelo negli spazi demodé dell’Hotel Ambassodor di Los Angeles il 4 giugno del 1968. Un epilogo drammaticamente cruento che purtroppo non ha consentito possibili riscontri oggettivi su ciò che sarebbe davvero rimasto “dell’idea”, nel passaggio dall’esposizione teorica alla pratica.
E la fine del “sogno” è brusca e repentina, rappresenta uno scossone traumatico anche per lo spettatore per il suo carico di violenza e di sangue che si porta addosso, in quel finale parossistico e accorto, costruito con sapiente maestria, ritmandolo sulle parole di uno dei discorsi più importanti e famosi di colui che sarebbe potuto diventare il nuovo “Presidente della speranza”. Parole che ci fanno ancor più comprendere la portata della tragedia e intravedere le “responsabilità” che sono ben più marcate e profonde di quelle del folle gesto di un disadattato fuori di testa: un “evento” studiato e programmato per scongiurare il cambiamento così necessariamente avvertito in quegli anni (e altrettanto fortemente avversato), così da poter perpetuare nel tempo un disegno diabolicamente oscurantista che resta ancora in piedi oltre 40 anni dopo, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Un ulteriore, “inevitabile” e criminoso assassinio di matrice “politica” quello di Bobby (come quelli analogamente “feroci” e distruttivi che avevano annientato le vite dell’altro Kennedy e di Martin Luther King), un ennesimo misfatto, premeditato e “irrimandabile”, per il quale i veri mandanti, effettivi o presunti che dir si voglia (purtroppo la “storia” con le sue lacunose omissioni, non ci consente di fare piena luce sui nomi e di formulare accuse più circostanziate e precise) non solo non sono stati puniti, ma hanno persino ottenuto (questo per lo meno lo possiamo affermare senza tema di possibili smentite) il riconoscimento “legale” della loro condizione predominante, assicurandosi così un prolungato e malsano controllo delle leve del potere che ancora tengono strette in pungo nonostante tutto.
Ed è in questa prospettiva che Bobby diventa allora la rappresentazione di una crisi di identità (e di ideali), quella di un paese (gli Stati Uniti d’America) e di una parte cospicua del suo popolo (quello più aperto e “progressista”), una angolazione questa che consente una “lettura dei fatti” e delle “azioni” perfettamente inserita nell’assurda ripetitività che assimila il presente a un passato non dimenticato (l’Iraq come il Vietnam) ma in una dimensione purtroppo ancor più priva di speranza, sia per la caduta verticale della ragione e del buon senso che non è fatto di secondaria importanza, che per l’assenza di una personalità di analogo carisma capace in qualche modo di “accogliere” e coordinare le disperate istanze di chi invece non vuole ancora arrendersi all’evidenza della sconfitta.
Ecco che allora ci viene (fortunatamente) risparmiato il “santino” che avrebbe fortemente sminuito l’importanza dell’impatto sociologico dell’accusa: Bobby è tangibilmente percepibile soltanto attraverso le immagini di repertorio e grazie alla “forza” - persino un poco retorica – delle sue parole, mentre tutta l’attenzione si sposta sulla varia umanità che anima(va) le stanze di quell’albergo in quella giornata così tumultuosa e febbrile, piccolissime vicende di normale amministrazione, ma non per questo meno appassionanti nel flusso della grande storia, perché emblematiche nel riprodurre uno “spaccato” attendibile - ancora la grandissima lezione altmaniana!!!- di quell’America liberal o “marginale” che subirà la debacle, ben rappresentata da quegli spauriti diseredati in cerca di asilo, alle prese con le propri paure, le proprie illusioni e i propri fallimenti, una moltitudine in espansione progressiva e inarrestabile di “marginali” illusi e destinati alla sconfitta, che identificava in Kennedy l’unica possibilità di “riscatto possibile”, intravedeva in lui e nella sua affermazione, il “mezzo” che permettesse davvero la realizzazione di una differente e nuova “prospettiva di decenza”, quella di una uguaglianza formale dei diritti e di un riconoscimento rispettoso delle priorità, che quelle “promesse di cambiamento” e il suo impegno sul campo, lasciavano per lo meno prevedere come possibili.
Un progetto a lungo accarezzato quello di Estevez che vuole essere anche un contributo personale per mantenere attiva la “memoria” e il ricordo, complici una attonita galleria di “figuranti”, a loro volta a vario titolo coinvolti e travolti da quell’attentato assurdo e delittuoso, che rappresentò davvero la fine delle illusioni e la definitiva perdita dell’innocenza di una nazione e di una (presunta) civiltà.
Si avverte, al di là dell’impegno profuso, la “passione” profonda che anima l’impresa, così viscerale e sentita, da contagiare non solo il nutrito cast stellare che ha accettato di condividere il viaggio (tutti attori di “chiara fama” stupefacentemente “in parte” senza gigionismi o prevaricazioni, disponibili, con l’umiltà del “grandi” ad essere semplici e momentanei “solisti” di un disegno corale di più ampie proporzioni). Fra tanti prestigiosi nomi (tutti bravissimi), una menzione davvero speciale, almeno per le mie personali preferenze, la meritano Sharon Stone e Demi Moore, coraggiosamente disponibili a presentarsi con i segni indelebili dell’invecchiamento, in un “duetto” che rappresenta non solo un assoluto pezzo di bravura, ma soprattutto uno dei momenti più straordinari - insieme al finale - di tutta la pellicola.
Una passione “civile” che si trasmette inevitabilmente e per intero anche al pubblico fruitore in sala che non può evitare di lasciarsi travolgere da quell’emozione impossibile da disattivare, di fronte non tanto alle immagini della tragedia, quanto all’attualità che travalica il tempo e le parole di quell’accorato discorso conclusivo, da solo capace di ricordare che troppo spesso in quel paese “al di là del mare”, è stato il sangue a soffocare possibili “aneliti di redenzione”, ieri come adesso… ed è una constatazione questa che non può lasciare né indifferenti né passivi. Singolarmente (ma la cosa ovviamente non sorprende, semmai intristisce) ancora una volta l’Academy ha praticamente disatteso le aspettative “snobbando” completamente una pellicola (e i suoi appassionati interpreti) certamente non priva di difetti, ma così “eloquente” da risultare – ai giorni nostri – imprescindibile e necessaria (e si ritorna allora a discernere sui premi e sulla loro vacuità, o inutilità che dir si voglia, se devono essere sempre assegnati con tanta approssimazione, o ancor peggio, con finalità meramente di carattere mercantile!!!).

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