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INLAND EMPIRE

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su INLAND EMPIRE

di ROTOTOM
8 stelle

Il viaggio di Lynch prosegue nel metafisico, dopo le Strade Perdute
girando a destra per Mulholland Drive si giunge al centro di noi
stessi. L’impero della mente è la mente stessa, il palazzo della
percezione degli eventi più che il loro logico conseguente dipanarsi e
una volta entrati è molto difficile uscirne indenni. Perdersi. La
grande paura è perdersi, è perdere la strada, perdere il tempo. Menti
dominate dalla paura delle forme costruite su architravi temporali, su rigore
geometrico su realtà, parola questa schiava delle convenzioni, antidoto della paura di
perdersi. La mente comanda il tempo e lo spazio, non c’è velocità della
luce che tenga, possiamo immaginare galassie lontane senza esserci mai stati e
possiamo esistere su di esse senza spostarci da qui, solo con il pensiero. Possiamo arretrare nel tempo fino al
limite della percezione, possiamo creare quel mondo attingendo alle
esperienze e alle conoscenze indotte dalla navigazione incerta di un
pezzo di tempo talmente irrisorio al cospetto del tutto, da risultare
assolutamente nozionistico chiamare “ tempo” il trascorrere della vita.
Eppure, l’immensamente grande è capace di stare tutto nell’immensamente
piccolo, nella mente il tutto ha il suo luogo in cui il concetto di
spazio e tempo è ridotto a mera percezione in cui la relatività di
questo concetto assurge a dio assoluto, a postulato cosmico dell’
essere. I metri, i km, gli anni luce, i minuti, le ore, anni , ere sono
solo definizioni formali utili per uno scambio equo di nozioni, nella
mente sono un’immagine, un frame, un moltiplicarsi di immagini e di
frame in cui un corpo può passare da un’immagine ad un'altra lasciando
tracce, briciole di coscienza, pezzi di essenza primordiale, singola
particella che racchiude il tutto permettendo all'essere di esistere a prescindere. Lynch è questo, la storia non ha più
nessun valore poiché la storia si dipana in pagine consequenziali
numerate e logicamente percepibili, questo concetto è solo una linea
percettiva, la più abusata e la più facile da abusare per non cadere in
fallo con le nostre certezze, la storia si sottomette alla
compenetrazione di mondi ognuno con la propria intima realtà, mondi che
si influenzano a vicenda, realtà che condizionano realtà in cui l’
abitatore di una di queste casuali realtà inconsciamente chiamerà
questa influenza che cambia il corso degli eventi, destino. La mente,
questo ha filmato Lynch, ne ha filmato gli strati, le possibilità, ha
fissato su digitale sporco, esploso in milioni di punti luce, corpi multipli divelti da ogni certezza, ha dato un
colore ad ogni emozione, un viso ad ogni sensazione, un suono ad ogni
paura. Ha prevaricato la morte, passando oltre, incidendo un segno
distintivo su ogni tronco su ogni pilastro di verità inoltrandosi
nell’inconscio, nelle cose che tutti conosciamo endemicamente, segreti
che abbiamo tatuato su ogni atomo e che corrispondono all’atavica
conoscenza più profonda dell’io e che rimuoviamo in cerca di sicurezze
superficiali facilmente riconoscibili e rassicuranti come la storia, il personaggio, la coerenza, il riconoscibile, la
corresponsione di emozioni a riflessi noti. La vita e la morte come si
conoscono, il tempo e lo spazio come ci limitano. Ha lasciato un segno
con l’unghia del pollice ogni volta che svoltava in anfratti sempre più
contorti alla ricerca di nuove conoscenze, svellando i pregiudizi che
impediscono di vedere, seguendone il dolore e il folle sanguinare per
poi tornare indietro, montare il tutto e mostrarcelo in un film capolavoro, elevato a rango di video arte, sganciato da velleità narrative che ne potessero imbrigliare il deflagrare. Un’opera definitiva e intima, totale e totalizzante, difficile forse ma assolutamente appagante dal punto di vista delle immagini, dell’onirismo lancinante cucito con la materia dell’incubo, dell’astrazione del pensiero liberamente espressa e imprigionata in pixel, milioni di punti luce, milioni di galassie, miliardi di atomi e l’immensamente grande che si fonde circolarmente con l’immensamente piccolo, spalancando l’abisso delle percezioni più profonde in chi assiste alla rappresentazione dello spettacolo della mente di un genio.

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