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L'uomo che ride

Regia di Paul Leni vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che ride

di OGM
10 stelle

Tratto dal romanzo L’homme qui rit di Victor Hugo, questo film di Paul Leni è la perfetta sintesi del mondo delle favole, di cui mostra, con il dinamismo scenografico tipico del cinema, i due volti opposti e complementari. Il fantastico si divide in parti uguali tra la spettacolare sontuosità del palazzo reale e l’estrosa bizzarria dei fenomeni da baraccone, al rigido cerimoniale di corte fa da contrasto la scalmanata vitalità dei saltimbanchi, e le parrucche e gli ermellini sono solo un’affettata riedizione dei vistosi costumi dei pagliacci. Sete e stracci sono i festoni della stessa caotica celebrazione della commedia umana,  in cui gioia e dolore sono maschere interscambiabili, perché se l’infinita ricchezza può essere un opprimente fardello, così l’eterno riso può essere una disgrazia irrimediabilmente scolpita nella carne. In ogni caso l’uomo è figlio e schiavo dell’ambiente a cui appartiene; è la bestia plasmata dalle mani dell’allevatore, sia esso il luminoso empireo del potere oppure l’oscuro bassofondo della miseria. Tuttavia, in questa storia di ruoli rovesciati e casi paradossali, in cui la bellezza è cieca e la nobiltà è claunesca, la visione naturalista è spezzata dall’incanto del sentimento, che crea improbabili alchimie tra le persone, fino a produrre quella miscela esplosiva che rompe gli schemi rivendicando il carattere assoluto dell’umanità: l’anima nasce infatti libera, e solo in seguito le situazioni della vita intervengono ad imprimervi il loro timbro, spesso inadeguato, e quasi sempre indelebile. Per rimettere le cose al loro posto occorrono una grande ventata di fortuna ed una buona dose di coraggio, che sono poi i tipici ingredienti della mitica lotta con il destino. Gwynplaine, radiato dal suo rango e ridotto a un mostro, riesce a riavere ciò che gli spetta solo attraverso una serie di circostanze avventurose: è questo travagliato ritorno della giustizia e della felicità, è questa tumultuosa risalita dall’inferno al paradiso a costituire il tessuto portante del racconto, come in tutte le fiabe più classiche, da Cenerentola a La bella e la bestia. In questo genere di letteratura, il romanticismo, più che una sensibile armonia,  è un languido affanno; ogni gesto d’amore è segnato dalla fatica di continuare a sperare, ogni slancio di emozione è interrotto dal sospiro della sofferenza. La bocca di Gwynplaine, paralizzata in un grottesco ghigno, non può contrarsi in un bacio appassionato, né socchiudersi su un tenero bisbiglio: quelle labbra spalancate sui denti sono il terrificante punto fermo su cui la coscienza prontamente ritorna dopo essersi abbandonata all’illusione, sono la beffarda zavorra che fa tenacemente da freno alla possibilità di sorvolare sulla dura realtà. Quella smorfia – che toglie dignità al dolore e nega credibilità al pianto - è una traccia graffiante di pietra, che sfregia la fragile patina dell’innocenza, ricordando che tutto è impastato di roccia pesante e polvere grigia, e occorre davvero la spavalda potenza di  un sogno per chiudere gli occhi e far finta di niente.

Su Conrad Veidt

Piangere con il riso stampato sul volto è una sfida recitativa senza precedenti, che Conrad Veidt supera con inaudita bravura.

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