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Il vento fa il suo giro

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su Il vento fa il suo giro

di OGM
8 stelle

A metà strada tra il documentario antropologico ed il dramma sociologico, questo film possiede l’aspra poesia dei luoghi dimenticati. La sua patina grezza è la polvere che copre il passato sepolto, sotto cui, però, cova il germe di una rinascita che sembra illusoria, anche se teoricamente possibile. La cultura occitana, in Italia, è ormai racchiusa in un arcaico dialetto parlato da pochi, in alcuni piccoli comuni delle Alpi piemontesi. Il popolo di pastori si è disperso, e i suoi discendenti hanno abbandonato la montagna per trasferirsi in città, conservando, nel villaggio natio, soltanto la casa paterna, ora deserta, e diventata un alloggio per la villeggiatura estiva. Gli abitanti di Cherbosco (il nome è di fantasia) tengono alle proprie origini, però credono che queste risiedano solo nel sangue, nell’appartenenza anagrafica ad un territorio, e non, anche e soprattutto, nella storia millenaria dei loro antenati. I paesani di oggi non vogliono sapere com’erano, però pretendono di sapere come sono: e inconsapevolmente eleggono, a loro identità etnica,  il carattere di una comunità chiusa e gelosa delle proprie abitudini, erroneamente scambiate per tradizioni. Philippe è un pastore dei Pirenei, arrivato presso di loro con la famiglia ed il bestiame, perché in fuga da una civiltà che egli considera malata, affetta da un opprimente eccesso di burocrazia e da una dannosa bulimia tecnologica. La sua scelta esistenziale ripropone, in realtà, la vita semplice della Cherbosco dei bei tempi andati, quando ci si nutriva dei frutti della terra e, soprattutto, ci si aiutava a vicenda, in forma rituale e festosa, in quel lavoro collettivo e solidale che veniva chiamato rueido.  Tuttavia, per la gente del posto, lo straniero è destinato a rimanere tale: un diverso, un intruso, che, con il suo stile alternativo, diventa un anacronistico avversario del loro modus vivendi, ed un imbarazzante promemoria sulle loro provenienze storiche. Lui, sua moglie ed i suoi figli non si integrano perché non riescono ad uscire dallo status del fenomeno esotico, dell’attrazione turistica, della curiosità da pettegolezzo. L’accoglienza è calorosa finché resta in superficie, mantenendosi entro gli aerei confini di un cerimoniale folcloristico ed ipocrita; però, quando la commistione si traduce, concretamente, in vicinanza fisica, spartizione delle risorse e contrasto di usi e costumi, l’ospite comincia davvero a puzzare come nel famoso proverbio. Giorgio Diritti, in questo film, che, per il resto, sembra affidarsi unicamente alla rappresentazione genuina e neutrale degli eventi, ricorre con insistenza al primitivo simbolismo della carne che odora, quella delle capre, dei maiali, delle persone che lavorano nelle stalle e preparano il formaggio.  Gli immigrati brutti, sporchi e cattivi, in questo caso meritano soprattutto il secondo appellativo, che denota l’ancestrale marchio dell’animale estraneo al branco, quello che viene riconosciuto come tale dall’olfatto. D’altronde, in questa vicenda, i termini del conflitto rientrano interamente nell’ambito biologico: gli oggetti della contesa sono l’erba dei pascoli, la legna dei boschi, il corpo di una donna. E allo stesso ambito appartengono anche le armi utilizzate nella guerra: un carretto di fieno, un barattolo di vermi, due capre sgozzate, due dita fratturate. La popolazione locale si comporta, dunque, come quel genere di umanità che dice di detestare, e che ha rimosso dalla propria atavica memoria. Il rifiuto è, di fatto, una paura rivolta al passato, a ciò che si teme di dover ricordare: è la schiavitù della vergogna, della mancata accettazione della nostra natura debole, relativa ed imperfetta, plasmata dagli istinti e dai condizionamenti sociali e familiari molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. Il patrimonio tramandato da chi ci ha preceduto è solo un’ingombrante zavorra se si traduce in un fardello dogmatico che ci impedisce di aprirci alla discussione critica e di comunicare con l’esterno. È, inevitabilmente, una certa impronta genetica a stabilire ciò che siamo, che facciamo e che pensiamo: e per questo non ci dobbiamo spaventare se, negli altri, ci pare di scorgere i contorni di uno stampo leggermente difforme.

Il vento fa il suo giro contiene, nel titolo, quella che inizialmente suona, nell’era dell’urbanizzazione, come una promessa di ritorno al materno grembo della terra, al maestoso splendore del paesaggio montano. Il romantico sogno agreste, però, ben presto si infrange, per rivelare il vero significato della circolarità del tempo, che riporta sempre indietro, sollevandole con una palata di terra, le radici rozze e selvatiche della nostra benedetta specie.    

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