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Red Road

Regia di Andrea Arnold vedi scheda film

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La recensione su Red Road

di degoffro
8 stelle

Inconsueto thriller fatto di lunghi silenzi ed ossessivi pedinamenti, dolore trattenuto e mai superato, improvviso ed accecante desiderio di vendetta. Narrativamente il film ricorda “Tre giorni per la verità” di Sean Penn. Da un punto di vista stilistico sembra invece seguire il Dogma di Von Trier filtrato attraverso l’occhio di De Palma ed inserito in un contesto proletario alla Ken Loach. L’esordio nel lungometraggio di Andrea Arnold, già Oscar nel 2005 per il corto “Wasp” e per questo film premiata a Cannes per la regia, è il racconto della sofferenza lacerante di una donna, Jackie, (un’inedita ed intensa Katie Dickie) impegnata come operatrice in un centro di sorveglianza della periferia di Glasgow. Un giorno, da uno degli innumerevoli monitor da cui osserva il quartiere di Red Road per segnalare alla polizia eventuali situazioni a rischio, individua un uomo che attira la sua attenzione. Da quel momento la sua monotona esistenza pare avere un unico scopo: incontrare quell’uomo. La Arnold sta addosso alla sua protagonista sovrapponendo, in un’efficace, nervosa e tangibile immedesimazione, lo sguardo ignaro e curioso dello spettatore con quello consapevole e febbrile di Jackie, non a caso valorizzata da ripetuti ed emozionanti primi piani. Le motivazioni dell’agire di Jackie infatti restano oscure fino alla rivelazione conclusiva che, peraltro, è l’elemento più debole ed incompiuto dell’opera: il repentino cambio di condotta della protagonista porta ad un buonismo posticcio e falso che mal si concilia con il resto della vicenda. Per tre quarti - più o meno fino alla lunga, esplicita e molto realistica scena di sesso - la regista costruisce un film dalla tensione rimarchevole, un attendibile e sfaccettato ritratto di donna ferita, annullata nella sua anonima e vuota esistenza cui non riesce a dare una significativa svolta. Lo sguardo su un’umanità fragile e smarrita è lucido e tagliente, mai ricattatorio, la messa in scena è algida, essenziale, documentaristica eppur coinvolgente, lo studio, anche psicologico, dei caratteri è veritiero, dettagliato, onesto, la fotografia livida, dai prevalenti toni blu o comunque freddi, quasi asettica, ad incrementare il clima di ansia ed inquietudine è notevole, il procedere narrativo è pacato, graduale, frammentario, ma implacabile, l’ambientazione in spazi desola(n)ti, popolari e sgradevoli è convincente e pregnante (bella la sequenza del pedinamento dell’uomo da parte di Jackie fino alla lavanderia), lo stile visivo ha un impatto vigoroso, a tratti quasi ipnotico. Apprezzabile inoltre il fatto che il discorso sul rapporto tra realtà e immagine, data l’attività della protagonista, non si faccia ridondante né prevaricante. Primo titolo del progetto “Advance Party” costituito da tre film girati da tre registi diversi negli stessi posti con protagonisti gli stessi personaggi.

Voto: 7

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