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Le particelle elementari

Regia di Oskar Röhler vedi scheda film

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La recensione su Le particelle elementari

di spopola
6 stelle

Una trasposizione cinematografica che non riesce a rendere in modo sufficientemente esaustivo le valenze intrinseche del romanzo di Houllebecq a cui si ispira. Il regista non è stato dunque capace di trasmettere il messaggio di un libro a mio avviso un po’ sopravvalutato ma molto interessante (oggettivamente difficilissimo da tradurre in immagini.

Spesso i migliori adattamenti cinematografici di opere letterarie, sono proprio quelli che in qualche modo sembrano “tradire” la traccia scritta, nel senso che non restano ortodossamente fedeli all’itinerario indicato per “tentare” una autonoma traduzione in immagini di quello che è l’essenza stessa della parola, anche perché difficilmente il differente mezzo di trasposizione “visiva” riuscirebbe a “contenere” tutte le azioni e i personaggi raccontati sulla carta e si devono necessariamente percorrere “scorciatoie” e “aggiustamenti” per sfoltire e concentrare, magari con alcune infedeltà che possono risultare indispensabili per consentire di far rimanere integra e “riconoscibile” “l’anima” e lo “spirito” originale. Ci sono poi romanzi più difficilmente “trasportabili” perché la trama rappresenta solo la superficie, il “pretesto” per veicolare i contenuti filosofici sottintesi, resi attraverso “stili” e riflessioni che mal si coniugano con la “visione semplificata” dell’immagine se non viene svolto prima un serio lavoro di “comprensione” che consenta la traslazione di quelle sensazioni “evocative”, così da permettere di raggiungere risultati analogamente pregnanti e tali da non far assolutamente rimpiangere la fonte, ma capaci semmai di “creare” nuovi stimoli di confronto e di comprensione. Questa lunga premessa, per evidenziare che le mie riserve a “Le particele elementari” sono dovute non a ragioni di “infedeltà” o di incompletezza, ma più propriamente al fatto che la trasposizione cinematografica non riesce a rendere in maniera sufficientemente esaustiva le valenze intrinseche dell’opera di partenza (della quale con la “modifica” del finale sembra addirittura volerne in qualche modo ribaltare le tesi o prenderne leggermente le distanze). E’ indiscutibile che il romanzo di Houllebecq - per altro a mio avviso fortemente sopravvalutato, nonostante che si tratti oggettivamente di una delle opere (e di uno degli autori) più interessanti e carismatiche della letteratura contemporanea - appartiene a quella folta schiera di “scritti” che renderebbero comunque problematico l’adattamento (come solo per fare degli esempi recenti, poteva sembrare per “Ogni cosa è illuminata” di Foer che invece ha avuto una singolare e stupefacente realizzazione che pur “condensando” e “modificando”, addirttura “drasticamente riducendo”, è stata capace di restituirci perfettamente espressi, i valori fondanti del romanzo facendone un prodotto indipendente ma analogo, o anche per “Il pasto nudo” che Cronenberg è riuscito a sua volta a rendere “diverso e personale”, ma analogamente inquietante, perfettamente integrato nella sua poetica). Qui invece il tutto risulta troppo “asciugato” e ridotto all’essenziale della storia. Si avverte così (come sta accadendo anche per le opere di John Fante che finiscono per diventare al cinema, in mano a registi maldestri e superficiali, dei semplici “melodrammi” persino fumettistici, calligrafici e pomposi) una mancanza di entroterra che risulta fastidioso, e non tanto perché il tracciato diventa meno provocatorio ed estremizzato rispetto al libro, ma perché Roehler si limita ad estrapolare dalla magmatica, ambigua, complessità della scrittura quasi saggistica dell’autore, il “racconto”, la trama (quasi paradossale nella sua enunciazione programmatica) di due vite contrapposte (sottraendo spazio alle implicazioni politiche e sociali), quelle di due fratellastri, generati da una stessa madre hippy, con padri diversi quanto ignoti e irresponsabili, che li ha abbandonati ai rispettivi nonni, divaricando così i loro destini fino a farne due perfetti estranei (ma che si integrano e si contrappongono in maniera esemplare, quasi due facce di una stessa medaglia). Il primo (Bruno) è un erotomane assatanato mentalmente disturbato, onanista e autore di deliranti libercoli inneggianti alla superiorità razziale, schiavo delle sue fantasie sessuali e chiuso nelle sue ossessioni che lo portano spesso a perdersi in morbose e pericolose attrazioni senza storia e futuro; il secondo (Michael) è un introverso e fragile biologo molecolare asettico e apparentemente asessuato, ancora vergine all’età di quarant’anni, indirizzato con successo quasi fenomenologico, agli studi che porteranno alla clonazione umana, un personaggio significativamente avulso dal sentimento (almeno in apparenza), che sembra per questo quasi voler rifiutare ogni contatto fisico: per lui la clonazione tecnica delle persone che esclude la sessualità dal rapporto riproduttivo, sembrerebbe dover rappresentare il “mezzo” ideale , evitando complicazioni e conflitti, per rendere la vita “felicemente perfetta”. La “scoperta” dell’amore (che sempre modifica e incide eliminando certezze e rendendo instabilmente propositivi i percorsi), sembra voler offrire a entrambi una svolta, ma non sarà così, o almeno i risultati che produrrà non avranno effetti completamente positivi e capaci di appagare “riappacificando” (e per Bruno e la sua compagna le conseguenze saranno addirittura tragicamente devastanti). La quiete sarà solo apparente e “pagata” da tutti a caro prezzo, in un finale che accomuna e unisce queste vite disperate nello straziato epilogo in riva al mare che evidenzia l’incommensurabile solitudine dell’esistenza umana. Niente da eccepire, dunque sul piano formale: la regia è “capace “ di regalarci momenti di intensa partecipazione emotiva grazie anche alla sorprendente resa di tutti gli interpreti (il fior fiore della cinematografia tedesca) primo fra tutti il magnifico Moritz Bleibtreu giustamente premiato a Berlino, che sa restituirci con profonda e totale adesione. la dolorosa ambiguità sfaccettata di Bruno. Purtroppo però nonostante le qualità indiscusse del regista, il concentrarsi soprattutto sugli eventi, non aiuta il percorso, né permette di comprendere appieno (semmai le enfatizza soltanto), le esasperazioni “differenziali” dei due fratelli rispetto all’atto sessuale, supportate solo da alcuni (a mio avviso insufficienti) flashback relativi alla infanzia e al diverso rapporto con la madre, che evidenziano la genesi delle due sindromi, rendendole forse emblematiche, ma certamente poco credibili e un tantino pretestuose sul piano della logica. Manca infatti tutto il “raccordo” con il sottofondo ideologico (magari discutibile) dello scrittore che rendeva necessaria questa esasperata contrapposizione di due vite agli antipodi eppure spesso convergenti, e sono analogamente assenti o rese in maniera insufficiente e marginale le critiche al sistema, le feroci invettive critiche… insomma rimane solo la “cornice” splendente, ma priva della sostanza vitale del “quadro centrale”. Conseguentemente, anche l’attenuarsi della provocazione quasi pornografica degli eccessi di Bruno resi così crudamente nel romanzo, finisce per rendere meno duro l’impatto, facendo prendere il sopravvento al sentimentalismo che qui risulta deleterio. Non so se sono stato capace di far comprendere appieno quali sono le ragioni della mia non totale adesione a un’opera che si conferma comunque disperata, originale e importante, ma “incapace” di soddisfarmi pienamente perché restituisce sempre e solo la superficie dell’acqua che scorre, magari leggermente increspata, senza farci “percepire” il pericoloso e avvolgente fondo vischioso e melmoso che si riesce a intravedere soltanto e che rappresenta invece il senso ultimo della filosofia ideologica, il malessere esistenziale espresso dall’autore del romanzo: quella di Houllebecq è la descrizione caustica e sofferente del mondo in cui viviamo e che per questo, ripeto, va ben oltre, nei significati e nei coinvolgimenti, le storie e i personaggi che rappresenta. Analogo procedimento non è riuscito al regista che non riesce invece mai a superare i limiti e ad andare fra le righe, “leggendo” attraverso e oltre, le implicazioni e le responsabilità etiche di questa deriva di anime (e rimane solo una storia di anime alla deriva). Usciamo allora sicuramente coinvolti ed emozionati dalla visione, perché ci rendiamo conto che “sono davvero complicate e complesse le particelle elementari della nostra esistenza” ma al tempo stesso perplessi (e in parte insoddisfatti) perché non siamo riusciti a cogliere completamente e fino in fondo (il regista non è stato capace di veicolarci interamente il messaggio)le ragioni del disagio disturbato che ci assale prepotente e implacabile, ma che forse non siamo capaci di metabilizzare totalmente.

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