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Indian. La grande sfida

Regia di Roger Donaldson vedi scheda film

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La recensione su Indian. La grande sfida

di PompiereFI
6 stelle

Burt Munro (Anthony Hopkins) è un anziano neozelandese un po’ eccentrico. Vive a Invercargill (da scrivere con una sola “elle” se non si ha abbastanza inchiostro), città vera che racconta di una storia vera avente inizio da uno dei punti più a sud del mondo. Oltre a conservare gelosamente una serie invidiabile di pistoni, da lui direttamente prodotti e lavorati, Burt si ingegna per costruire qualcosa di importante intorno a una moto che tiene gelosamente custodita.

 

Mentre è tutto preso nelle sue frenetiche e incessanti attività di ricomposizione, Burt prepara il thè con l’acqua dove mette a raffreddare i pezzi meccanici, fa pipì sulla pianta di limone causa prostata indebolita, si taglia le unghie usando un flessibile e gestisce i suoi rapporti con la comunità in modo allegro e spensierato. Intanto accumula i risparmi della pensione per destinarli a un viaggio da fare insieme alla fedele Indian Scout del 1920, gloriosa moto a pedali dell’esercito. Il proposito di Munro è quello di battere il record di velocità di categoria con cilindrata inferiore a mille centimetri cubici. Ma la vecchiaia incombe e il percorso verso gli Stati Uniti del 1963 è lungo.

 

Scritto, prodotto e diretto dal navigato Roger Donaldson, “The world’s fastest Indian” omaggia un uomo che il regista conobbe di persona e del quale rimase ammirato. Una stima che si tradusse nel 2005 in una pellicola entusiasta ed emotivamente coinvolta, che di Burt celebra la personalità irrefrenabile, contagiosa per chiunque gli si avvicinasse, poi inevitabilmente esortato alla ricerca costante della beatitudine.

 

Nonostante qualche svolazzamento di troppo durante le riprese lungo la strada verso lo Utah, le immagini del film sono favorite in buona misura da una seducente colonna sonora. Assistere alle curiose vicende di Munro è un po’ come sfogliare un piacevole album di ricordi che ti dice che il pericolo è il sale della vita. Ogni tanto è necessario correre dei rischi per dire di essere esistito veramente, e Burt sottolinea il piacere della guida e dell’avventura pur essendo partito da umili origini, dato che ha preferito vivere in una solida baracca, in uno spazio senza recinto ma quasi ascetico, con tanto di cappella votiva nei confronti della rapidità su due ruote.

 

“Indian” offre anche la migliore prova di Hopkins da sette anni a questa parte; un ruolo di grande charme che si rifà a insigni principi, in un’epoca appena abituata alle gentilezze, e a un consolidato spirito tenace che a volte richiama l’atteggiamento disincantato alla “Forrest Gump”. Gustosamente geniale e stravagante (vedere come risolve i problemi strutturali della moto per credere), la gentilezza e l’umanità del pilota incoraggiano coloro che incrociano il suo destino: commessi salvadoregni, travestiti, indiani pellerossa, pari età. Il resoconto delle vicissitudini incede semplice e convenzionale, con una poco riuscita e deviante parentesi drammatica che mette lì un po’ di suspense alla bell’e meglio (bisogna ricordare che non tutti gli eventi raccontati nel film corrispondono alla realtà; sarebbe interessante sapere se effettivamente Munro soffrisse all’epoca di cardiopatie e di altre difficoltà fisiche).

 

Il brillante valore allegorico viene incrinato da una seconda parte troppo lunga che si smonta dal punto di vista affabulatorio. Da un certo momento in poi risulta ridondante ed “educata”, ai limiti della commiserazione. Tuttavia si mantiene il massimo rispetto per quello squattrinato claudicante di Burt, perché “non conta quello che dicono i critici, quelli che raccontano la caduta dell’eroe, che dicono dove avrebbe fatto meglio. Quello che conta è il coraggio di chi scende nell’arena”. In fondo ognuno di noi è alla ricerca di un suolo sacro. E magari anche della sua Jane Russell.

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