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Il grande uno rosso

Regia di Samuel Fuller vedi scheda film

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La recensione su Il grande uno rosso

di SamP21
9 stelle

In Pierrot Le Fou, Samuel Fuller sviscera in poche parole cosa deve essere o per lo meno cos’è il suo cinema: amore, odio, azione, violenza, morte, ovvero Emozioni! Queste cinque componenti le ritroviamo in questo splendido film di guerra, che è il testamento spirituale di un regista che successivamente la storia, quella piccola del Cinema, ha consacrato per la sua grandezza.

 

La trama in breve

Raccontata in soggettiva da un soldato arruolato nella 1ª Divisione di Fanteria americana, soprannominata “il Grande Uno Rosso”, si snodano le vicende di quattro soldati, agli ordini dell’anziano sergente Possum, veterano della prima guerra mondiale, durante le campagne della seconda guerra mondiale che la divisione combatte in Nordafrica, in Sicilia, in Normandia, nella neve delle Ardenne ed infine in Cecoslovacchia, dove scoprono i campi di concentramento nazisti.

Fuller è stato prima di tutto un giornalista, poi sceneggiatore e regista, ma l’esperienza che ha segnato la sua vita e anche il suo modo di fare cinema, sempre così nevrotico ma concreto, è stata l’aver preso parte alla Seconda Guerra Mondiale e aver visto i campi di concentramento. Il film è antibellico ma ci mostra, senza il cinismo di molto cinema post-moderno, cos’è la guerra.

 

https://www.youtube.com/watch?v=4WiIszeBvjA&feature=emb_logo

 

 

Falkenau, the Impossible (1988) Di Sam Fuller

 

 

 

Le scene bellissime, alcune delle quali fanno quasi sorridere, sono figlie di una sincerità autobiografica e storica allo stesso tempo. Seppur con un budget poco da colossal, il film riesce a rendere avvincenti le scene di guerra, ma è grande soprattutto per il suo racconto di questi cinque uomini, o meglio quattro ragazzi e un uomo, sopravvissuti al più tragico e disumano evento del Novecento.

 

Fuller ha sottolineato spesso il fatto di aver realizzato un film su sopravvissuti; non è di per sé un film contro la guerra, ma è un film sulla guerra. Lo sguardo del regista è pieno di verità, il suo non è un saggio contro questo o quello, non è teso a raccontare le ragioni della Guerra, ci mostra degli uomini che devono sopravvivere e non hanno altro modo, se non quello di contare su sé stessi.

 

Due sono i personaggi centrali: uno è il giovane scrittore, che rappresenta diegeticamente lo stesso Fuller, narratore dell’intera vicenda, l’altro è il sergente Possum (un Lee Marvin gigantesco) che ha vissuto anche la “sporca” Grande Guerra. Il sergente è il personaggio cardine del film, è attraverso le sue azioni e il suo sguardo che riusciamo a cogliere la visione del regista, visione che poi si sdoppierà attraverso lo sguardo più smaliziato dei quattro giovani che perderanno presto la loro ingenuità.

La regia è ottima e segue le scene di guerre come quelle più intime in modo eguale, ma è verso il finale che si eleva: le scene del manicomio, l’assalto alla collina, l’arrivo nel campo di concentramento e con esso l’incontro con il bambino si segnalano come tre scene da “Storia del Cinema”.

Fuller non è un regista spettacolare, ma come in tutti i suoi film fa parlare le immagini, sono le immagini che illuminano umori e pensieri, ed è con le immagini, si pensi alla prima scena in bianco nero, e poi al successivo nuovo incontro con il Cristo in croce, che si mostra la brutalità e la violenza della guerra.

Un accenno sul cast va fatto: i quattro giovani sono interpretati da bravi attori, in cui spicca per celebrità Mark Hamill (Luke Skywalker in Star Wars); è però, Lee Marvin a regalarci e regalarsi un’interpretazione che non si può scordare. Fuller voleva un attore forte, magro, dal viso scheletrico, che con il suo sguardo potesse mostrare l’amarezza ma anche la forza di un uomo che da soldato semplice avesse vissuto le due guerre. Marvin come Fuller aveva combattuto la Seconda Guerra Mondiale, sarà per questo motivo, o per il suo status di “duro”, che la sua interpretazione è credibile e umanamente imponente.

 

Il film è uscito nel 1980, il cinema americano stava iniziando a raccontare la Guerra in Vietnam, ma Fuller, che era uscito dal cinema che contava da ormai otto anni, voleva realizzare la storia della sua vita e riuscì a girare il suo ultimo grande film, forse il suo più famoso, che è diventato il suo testamento; racchiude la sua visione del cinema, ma soprattutto della vita. In oltre cinquant’anni di carriera, il regista di Worcester (Massachusetts) ha affrontato tutti i generi possibili, con il suo stile e la sua visione diretta, è stato spesso ghettizzato da Hollywood per il suo cinema pieno di tensione sessuale e per le sue idee anticonformiste.

 

È stato il cinema europeo, e con questo ci ricolleghiamo al nostro approfondimento su l’America vista dagli europei, a inquadrare in modo diverso un regista considerato da B-Movies, che in realtà, come nel caso di Nicholas Ray, è un autore importantissimo per il cinema successivo. Godard e poi soprattutto Wenders gli hanno reso omaggio e hanno ri-aperto il discorso critico sulla sua poetica.

 

Il Grande Uno Rosso si contraddistingue tra i tanti film di Guerra per il suo realismo, ma soprattutto per la veridicità sulla vita di un soldato, che Fuller mostra giustamente come ultima ruota del carro sociale, ma senza di cui la Democrazia non sarebbe stata la stessa. Non ci sono buoni e cattivi, non c’è giusto e sbagliato in guerra, i soldati devono sopravvivere, gli ufficiali devono vincere ma, come già detto, Fuller non è interessato al discorso generale, il suo è un film di uomini, è un film di memorie, è un film di emozioni; è un film sulla guerra e sulla morte, ma è anche un film su chi è riuscito a rimanere incollato alla vita e ci ha raccontato dal punto di vista più basso, che forse è il più alto, l’avvenimento del secolo!

Grazie Sam!

 

 

Voto 8,5

 

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