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Il grande sonno

Regia di Howard Hawks vedi scheda film

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La recensione su Il grande sonno

di EightAndHalf
8 stelle

Una domanda sorge spontanea a chi non ha visto ancora The Big Sleep e ne sente parlare benissimo come si trattasse di un capolavoro immortale: perché tutti parlano di quanto il film sia complicato, ma il film piace comunque? Dunque, qual è il Mistero The Big Sleep? Come se non bastasse l'enigmatica e intricatissima vicenda che segue le indagini del mitico Marlowe/Bogart creato dall'altrettanto mitico Raymond Chandler..
Di fronte al capolavoro di Howard Hawks siamo testimoni di un duplice flusso, quello narrativo (pieno zeppo di contorsioni, di acrobazie, di passaggi al limite dell'incomprensibile) e quello puramente cinematografico, che sorregge l'impianto narrativo e sembra quasi scendere in secondo piano, se non fosse che, a conti fatti, è proprio quello a rendere il film il capolavoro che è. Perché è pure vero che la regia è quasi invisibile (quel genio di Billy Wilder onnipresente), e si muove sinuosa nelle trame e sottotrame che lo spettatore fa fatica a seguire e che invece quella stessa regia sembra tallonare con grazia e eccezionale maestria, ma la realtà è che è proprio quella regia a mettere in scena con simile illusoria fluidità quella storia che invero finisce per essere solo un enorme invadente pretesto. I due flussi diventano infatti due percorsi fluidi di cui uno lo è solo apparentemente, mentre l'altro lo è abbastanza per entrambi. I volti, gli ambienti, luci ed ombre sornione che sfuggono quando la tensione sale alle stelle, i fumi, i buchini delle serrande da Double Indemnity che si proiettano contro i muri, i cappelli di feltro, le lettere, le femmes fatales, tutte quante le componenti di un noir classico che si rispetti stanno al loro posto a suggerire l'eterna ambiguità dell'animo umano. Stavolta però dànno solo l'illusione di compostezza, perché la storia di The Big Sleep è stravolgimento, ripiegamento, loop che si nutre di vera passionalità e passionale ipocrisia a posizioni alterne e asimmetriche. L'irregolarità di fondo della pellicola, che diviene zenit rappresentativo della connaturata immoralità dell'essere umano, è pura confusione di dimensioni, è fusione eversiva di istinti, ragioni e sentimenti, coinvolti in passioni smisurate ma calcolate al millimetro e cristallizzate in bugie e segreti inconfessabili. Tra il credere, il sapere e il far credere, i limiti nel loro inframmezzo (che mai sono esistiti) ribadiscono imperterriti la loro eterna assenza, e ogni personaggio incarna tutte e tre le dimensioni manovrandole come un burattinaio di fronte ad ogni diverso individuo, facendo sì che ognuno diventi, effettivamente, la marionetta di se stesso, il proprio processo di autoannullamento nella necessità di mostrarsi con caratteri e parvenze diverse ad ogni singolo individuo "altro", inconsapevole. Mentre la complessità esistenziale sopravanza in una trama che si segue a stento per un'ora e poi (fa) perde(re) la bussola fra tornanti, chicane e cadute libere nei twist più imprevisiti, il film prosegue con il suo stile austero e praticamente perfetto, a cui Hawks ha sempre fatto abituare, mantenendo, nel suo apparire, una fluidità, una leggerezza, appunto, invidiabili, che pure non escludono la messa in scena di, d'altro canto, una pesantezza contenutistica senza eguali. Senza poi rinunciare ai vezzi da star che vedranno Bogart impegnato nella sua esistenza quotidiana da grande uomo attraente e Lauren Bacall impegnata nell'esecuzione di almeno una canzone, Hawks dà al suo sguardo l'equilibrio perfetto fra candore e ambiguità, tradizionalismo e ribellione, fino a scardinare i preconcetti e a confondere, pur nella più ordinata e controllata delle strutture esteriori. 
The Big Sleep diventa così pura illusione cinematografica, gioco estetico di misteri e intrighi, in cui si vogliono, come in altri noir, mettere in scena brutture e oscurità dell'essere umano (immerso nel caos metropolitano), espletandole in una storia confusa, piena di buchi neri e invalicabile come è irrisolvibile la corruzione, il tradimento, la passionalità, l'immoralità. Che pure creano (ed è questa la cosa che rende il film un capolavoro) un fascino irrinunciabile.
Così capiamo di non capire, comprendiamo alcuni passaggi, alcuni scivolano via, ma i limiti dell'immagini stanno sempre lì, ad indicare come l'uomo, ma anche la donna, simulano e dissimulano confondendosi loro stessi, adoperando svariate maschere volontariamente strutturate per (non) far capire e disperdendosi nelle proprie labirintiche pulsanti insoddisfazioni. Fino a creare un'ambiguità universale che pure Lang, Daves o anche Wilder avevano (e avrebbero poi) saputo creare, bypassando però storie che invece si facevano seguire e non erano semplici metafore arzigogolate, ma allusioni millimetricamente calibrate.

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