Regia di Philip Gröning vedi scheda film
"documentario" si incentra su una visione "poeticizzante" della vita monastica.
Il tempo dilatato, il ritmo delle stagioni, il lavoro, la preghiera quotidiani vengono contrapposti alla vita estenuante dello spettatore. Un effigie di ciò che questo gruppo ristretto di uomini, vive rigorosamente al di fuori del mondo. La banalità del bene, si potrebbe riciclare. Ma è molta la superficialità.
Infatti il film dice anche di più, involontariamente. Presenta i monaci in maniera imbarazzante dedicando dei ritratti un po' vanesi; li rappresenta, più che li ritrae, nel silenzio del rumore quotidiano, nel fascino new age della "vita altra", il profumo di un mondo che gioca il proprio destino altrove. Difficile che questo film parli a chi non è in sintonia con la frustrazione di vivere nel caos dell'occidente "relativista". Il dubbio è che il film, oltre che troppo lungo, sia sterile, che vada a solleticare una velleitaria tensione all'altissimo, che un pubblico massificato richiede una tantum, illudendosi di avere catturato una goccia di santità ed ascesi. Un film su un monastero buddista avrebbe prodotto gli stessi stilemi e avrebbe solleticato le stesse frustrazioni. La parte documentaria del film è alterata dalla consapevolezza dei monaci che, tranne in qualche raro caso, NON guardano mai in macchina da presa, fingono cioè che non ci sia l'operatore, fingono di non essere filmati; un reality religioso e poco distaccato che livella al ribasso una tradizione millenaria, che perdura nonostante film di questa risma.
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