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Jarhead

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Jarhead

di lussemburgo
8 stelle

La fredda pessimistica analisi fatta da Kubrick in Full Metal Jacket sulla riduzione a zero della personalità individuale per far emergere l'animale belligerante insito in ogni essere umano riecheggia durante la prima parte di Jarhead. Manca il rigore delle inquadrature e la spietatezza intellettuale del regista americano all'addestramento dei marines ritratto dell'inglese Mendes che, macchina in spalla e fotografia desaturata dalla sovraesposizione, riprende le varie fasi della riconversione intellettuale e psicofisica di giovani reclute. Pur correndo il serio rischio di fare una versione stilisticamente degradata di Full Metal Racket, Mendes - come Kubrick - segue i pensieri e il percorso del commilitone più sensibile. Ogni cosa cambia nome e senso durante l'addestramento, il vocabolario viene riscritto e finalizzato, la cavalcata delle Valchirie di Apocalypse Now diventa un inno alla guerra perché uccidere è la missione e lo scopo di ogni buon marine. In questo nuovo mondo riformato dall'ottica militaresca, lo scontro a fuoco è l'unica espressione di vita, la sola cosa degna e pregna di significato. Il resto è una serie di parole senza senso, di comportamenti privi di fine, un universo di pura virtualità: l'amore, il sesso, la vita stessa, che senza l'altrui morte imposta perde significato e qualsiasi importanza.
Purtroppo anche la guerra (che qui è la prima del Golfo), svolta dai soli caccia e dai carri armati, è virtuale, e la fanteria dei marines vi non trova più posto o ruolo perché il fronte è sempre davanti e un po' più in là. Le uniche vittime americane visibili saranno quelle del "fuoco amico" (o dell'addestramento), e i morti sul campo avverso sono civili colti di sorpresa, ammazzati mentre cercavano di fuggire, carbonizzati in un cinico fermo-immagine che non è specchio di alcun combattimento. Le scene sul deludente campo di battaglia sono filmate con macchina fissa e una fotografia densa di sfumature e contrasti cromatici, a trasmettere l'importanza della loro percezione nella mente del soldato.
Per questi giovani sovrallenati, pronti alla guerra e scalpitanti, il fronte è solo frustrazione, l'attesa inconcludente di una battaglia lontana, il deserto di nuovi tartari che sono solo berberi arrabbiati per i cammelli usati come bersaglio. In un contesto maschile e militaresco in cui abbondano metafore e espliciti riferimenti sessuali, l'eccitazione guerresca dei marines si infrange di fronte all'incompiutezza dello scontro a fuoco, procrastinato sino al dolore e all'impossibilita di una soddisfazione liberatoria. E quando il momento sembra giunto e l'occasione di mandare a segno un colpo mortale finalmente si fa avanti, la macchina burocratica blocca la pulsione e nega l'appagamento, tanto che il marine sprofonda in un inconsolabile pianto e implora il suo diritto ad uccidere, almeno una volta.
Il vero fronte su cui si combatte veramente è quello interno, non si trova "over there" bensì a casa, dopo il ritorno, a guerra finita e mai combattuta, qunado tutta la sua inadeguatezza esplode. Addestrato per una funzione che non ha più senso, un ruolo che non esiste più in una guerra sostanzialmente tecnologica, il marine di Mendes soffre dell'impossibilità di entrare in azione. L'identità individuale, ridotta alla sola espressione omicida (la mano è il fucile, in una perfetta identificazione tra arma e uomo), è annientata dall'impossibilità di espletare quest'unica funzione vitale. Mendes, in fondo, parla di oggi, del lavoro e del mondo moderno, dove l'individualità persa nell'addestramento a svolgere una funzione non viene riassunta da una irrealizzabile riconversione ad una diversa professionalità, e ognuno è solo ed impotente nei confronti della società, sovrastante e cinica. "Sempre fidelis" è il motto dei marines, ma i reduci che si incontrano nel film sono macabri relitti umani, fedeli ad un ideale improponibile nella vita quotidiana. Jarhead, dopotutto, è un film sulla cattiveria dell'organizzazione sociale che della singola macchina umana sa fare a meno, sul "fuoco amico" che fa più vittime della guerra combattuta.
Mendes non vuole rifare Kubrick e si attiene ad un piano più realistico, non pretende di scrutare nell'animo umano ma osserva le conseguenze di condizionamenti imposti su alcuni individui presi a campione. Se Kubrick scrive un trattato sulla natura dell'uomo, Mendes si limita ad una versione acustica di Born in the USA. Per questa "ballata americana", il regista opta per una regia sostanzialmente piana, sebbene non rinunci, a prezzo di qualche stonatura, ad un certo barocchismo onirico e ai siparietti aneddotici che già avevano caratterizzato American Beauty (poi ripresi con efficace ironia in Desperate Housewives, che dell'esordio di Mendes sembra la parodistica versione femminile).

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