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Il cineamatore

Regia di Krzysztof Kieslowski vedi scheda film

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La recensione su Il cineamatore

di OGM
8 stelle

Il cinema come fame di visione. Come bisogno fisiologico che si ripresenta, regolarmente, e si manifesta come attrazione verso gli istanti da fermare, verso le immagini qualunque da trasformare in inquadrature, al fine di renderle importanti.  Il cineamatore Filip non insegue l’arte, ma si muove sulla scia di un’abitudine che in lui ha creato assuefazione: il motore della sua passione non è il piacere di guardare, bensì la necessità di documentare. L’incarico affidatogli dal suo datore di lavoro – riprendere i festeggiamenti per il venticinquennale dell’azienda – è diventato per Filip, improvvisamente, un nuovo modo di vedere il mondo e partecipare alle sue vicende. L’occhio nudo non basta più, perché non è in grado di conservare una traccia delle sensazioni: non ha la possibilità di archiviare, catalogare, spiegare per esteso i risvolti degli eventi, e per questo va integrato con uno strumento che abbia una memoria, e produca un resoconto da poter analizzare e rimaneggiare a posteriori. Filip realizza il montaggio e l’aggiunta del commento con lo stesso scrupolo con cui si sviluppa e sintetizza un ragionamento, perché il suo scopo è catturare e riprodurre, per esteso, il senso della verità. Questo approccio lo pone, di fatto, in una prospettiva statica e sopraelevata (come quella da cui, dal suo balcone, filma gli operai che lavorano per strada), che, mentre lo inebria con la sua sfolgorante limpidezza, lo distanzia dalla concretezza della vita. La prossimità e il particolare non fanno più parte del suo panorama, che oramai è impostato sui campi lunghi, sui concetti universali da tradurre in sequenze filmate, sui casi inconsueti da trasformare in lampi di originalità. Il suo obiettivo si posa sulla quotidianità solo per coglierne gli aspetti insoliti e contraddittori, come i dirigenti che interrompono la riunione per andare alla toilette, i turisti ubriachi che fanno baldoria ad Auschwitz, l’operaio nano che in venticinque anni di lavoro non ha fatto neanche un giorno di assenza.  La normalità non lo interessa più, e la tranquillità del focolare domestico è il grigio ricettacolo di tutto ciò che ormai si dà per scontato, e perciò non dice  più nulla.  Quello che Filip trova, nelle sue pellicole, è la fuga nell’allucinazione, che è magicamente capace di trarre, da un piccione che mangia briciole sul davanzale, l’inatteso spunto di un sogno. Il quadro sgranato, scomposto e ricomposto della realtà è per lui un viaggio dentro il significato delle cose, una droga che esalta ed amplifica la percezione, facendo dell’io sensoriale il filtro attraverso il quale tutto si definisce. Il passaggio in televisione, che per Filip rappresenta un traguardo straordinario, elegge il suo punto di vista personale a criterio di riferimento generale, trasformandolo nella voce  ufficiale attraverso cui le storie giungono al popolo. In questo film  c’è molto del passato cinematografico di Kieslowski,  che, dal 1968, anno del diploma, al 1976, anno del suo primo lungometraggio per il grande schermo, fu attivo quasi esclusivamente come regista di documentari per la tv, tutti ispirati alla vita delle città, della gente comune, e soprattutto all’ambiente dei lavoratori, dei pensionati, delle fasce deboli della popolazione. Opere quasi tutte incentrate sul problematico rapporto con le autorità, con i rappresentanti di un apparato statale rigidamente inquadrato nelle politiche del regime ed abnormemente burocratizzato: un cinico ed elefantiaco meccanismo del potere che, in Amator, è incarnato dalla figura del direttore della fabbrica, severo censore delle creazioni di Filip, e il cui miope autoritarismo mescola  l’ortodossia ideologica con la schiavitù dell’apparenza.  Illecito è tutto ciò che è contrario alla dottrina del partito o può nuocere all’azienda: la critica è bandita, un principio a cui Kieslowski riuscirà sempre a sottrarsi.

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