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Girolimoni, il mostro di Roma

Regia di Damiano Damiani vedi scheda film

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La recensione su Girolimoni, il mostro di Roma

di degoffro
8 stelle

Nei primi anni del fascismo, un mostro inafferrabile terrorizza i quartieri romani di Borgo e di Ponte, seviziando ed uccidendo una serie di bambine. La psicosi generale porta al tentativo di linciaggio di un povero vetturino. "Voce del popolo, voce di Dio": non si ha il coraggio di denunciarlo e non ci si preoccupa di sapere nemmeno se è lui il vero colpevole, ma si è pronti a massacrarlo. "Una tortura cinese dovete fargli: dovete legarlo ad un palo e poi farlo a pezzi con un coltello" urla sguaiata, isterica e spietata una donna con tutta la sua rabbia e violenza (e subito dopo scopriremo essere la madre del vero mostro, ancora più viscida, squallida e disonesta del figlio). "A morte perché? Per niente. Ma che sono Cristo io?" si domanda disperato il vetturino che, accusato ingiustamente da una folla inferocita ed animalesca (in una sequenza che sembra ricordare i tumulti e le agitazioni di ben altre rivoluzioni), si ucciderà bevendo acido muriatico davanti a quella stessa gente che lo aveva condannato senza pietà e senza rispetto. La polizia brancola nel buio più assoluto: si arresta il primo che capita, meglio se brutto, sporco e deforme, mentre le persone all'apparenza perbene, eleganti e raffinate sono lasciate libere e non vengono disturbate. Esami genitali ("Non sono cazzi tuoi.. e invece sono proprio cazzi miei..") per zoppi, storpi, barboni, vagabondi, ciechi, pezzenti, scarti dell'umanità, dimenticati da Dio, costretti a vivere nella miseria e nella più assoluta povertà. Il regime, che aveva promesso ordine, tranquillità e disciplina, si trova nella necessità assoluta di scoprire il colpevole: "Un attentatore accresce la gloria del fascismo, ma un criminale così in libertà ne diminuisce il prestigio", afferma perentorio il duce, il quale ordina di catturare a tutti i costi UN colpevole. Grazie all'accusa di un marito geloso e all'ambizione di un brigadiere, voglioso di fare carriera, costui viene finalmente individuato in Gino Girolimoni, un provinciale che a Roma è riuscito a procurarsi una certa agiatezza. Produttore per avvocati (a quelli che hanno incidenti sul lavoro, procura la difesa) Gino ha anche la passione per la fotografia, in particolare dei nudi femminili. Gli indizi contro di lui, come le presunte testimonianze che lo accusano, sono inconsistenti: ci sono però in ballo una promozione e una taglia ragguardevole per chi individua il mostro. Gli inquirenti si affidano ad una bambina che, a dire della sua maestra, è una bugiarda nata, la sola bambina che afferma di essere riuscita a salvarsi dal mostro "grazie all'intervento della Madonna". "Vedremo la tua fotografia su tutti i giornali" le dicono e la ragazza, sorridendo al pensiero della notorietà che la attende, vero e unico sogno per i tanti poveracci dell'epoca, si sistema i capelli soddisfatta e conferma le sue dichiarazioni deliranti e mitomani. "Anziché analizzare il mio pisello, analizzate il suo cervello" afferma sconsolato Girolimoni (e l'ironia amara e tagliente è uno dei punti di forza della splendida, compatta e disperata sceneggiatura firmata oltre che dal regista Damiani, al suo miglior film, anche da Fulvio Gicca Palli ed Enrico Ribulsi). "Vi farete ridere dietro da tutta l'Italia, voi fate sempre così?" Sulla base di indizi superficiali, approssimativi, comunque mai convincenti, la polizia, ansiosa di dare al capo del Governo la notizia dell'arresto del mostro, annuncia trionfalmente, con grande clamore dei giornali, la liberazione della città da un assassino pericoloso e depravato, ma tra gli stessi inquirenti ci sono dubbi, perplessità e incertezze, con frequenti litigi e discussioni ("Mi trovi un altro mostro"). Del resto non si può coinvolgere Mussolini in un errore: cosa importa della semplice vita di un uomo, umiliato e offeso, distrutto per sempre nella sua dignità, "costretto" a portare in eterno un nome che è una macchia e che lo inchioda ad un infamante, sporco e viscido destino. Dopo quell'accusa diffamante ormai il popolo inevitabilmente identificherà il nome di Girolimoni con quello di un disgustoso e spregevole assassino di bambine, quel nome è diventato un'offesa, un insulto. Il caso Girolimoni, secondo i dubbiosi, può diventare anche un pretesto per introdurre la pena di morte: se c'è per i reati civili, a maggior ragione è giusto che ci sia per i reati politici, in modo che gli oppositori del regime siano avvisati. Tuttavia, benché asservita al fascismo, la stessa polizia dovrà di lì a poco riconoscere che Girolimoni è innocente. Della sua estraneità ai delitti e della sua scarcerazione però, i giornali sono obbligati a non far parola. Mussolini ha ordinato il silenzio stampa e il fascismo, si sa, "è una trincea dove non si discute, si obbedisce." "Se è importante ciò che la stampa dice è molto più importante ciò che la stampa tace", triste ed inquietante verità, ancora oggi, purtroppo, tremendamente valida. Girolimoni però ha finito di vivere: impotente ed incapace di lottare contro la convinzione popolare, che lo vuole colpevole, proseguirà il suo duro e disperato calvario e scivolerà in un abbrutimento da cui non sarà più in grado di riaversi. Damiani racconta un caso realmente accaduto con accuratezza e attenzione nella ricostruzione di un clima surriscaldato e teso e di un epoca malata e confusa. Nel suo pamphlet duro, vigoroso ed appassionante non si salva nessuno. Le forze dell’ordine succubi del potere e dell’ambizione, disinteressate alla ricerca della verità, ma preoccupate esclusivamente di dare una bella notizia al duce, anche se poi l’arrestato non è il vero colpevole, ma una vittima di congiure, inganni e bugie poco importa: sarà sufficiente poi offrirgli “una cifra congrua per cambiare città, magari trasferirsi in America”. Tutto è facile (“Cambia nome, tanto la gente dimentica”) quando non si è personalmente coinvolti, non si comprende la reale disperazione di un uomo che si è visto distruggere la vita da un ammasso di ciarlatani e mitomani, senza un perché (e tornano alla mente le parole iniziali del vetturino “A morte perché?”). La stampa che tace ciò che dovrebbe dire (la scarcerazione di Girolimoni ridotta ad un trafiletto di poche righe) e diffonde con estrema spudoratezza e volgarità notizie che prima dovrebbero essere accertate, condannando spesso per la semplice intenzione (ora non siamo in epoca fascista, ma poco è cambiato sulle modalità di agire di certa carta stampata). Poi ci si può scaricare la coscienza cercando un altro personaggio “perfetto da prima pagina” come ad esempio un prete pedofilo (e anche la Chiesa ne esce con le ossa rotte): “non è lui, ma potrebbe esserlo”, parole che risuonano come macigni per il povero Girolimoni, il solo che, mentre tutti sono ossessionati dall’idea di entrare nella storia, desidera solo uscire dalla storia. Ma forse il ritratto più spietato e desolante che Damiani ci dà è quello della povera gente, adulti senza speranza irresponsabili ed egoisti, disposti a lasciare fuori di casa i propri figli, sotto la pioggia battente, di notte, pur di fare sesso in tranquillità, pronti a vedere il mostro in ogni persona incontrata pur di avere la prima pagina. “Molti bambini muoiono di stenti e maltrattamenti e nessuno ci fa caso: se però sono uccisi dalla mano nera di un mostro diventano povere creature, angioletti. La notorietà è un gran conforto al dolore: per la prima volta si è al centro dell’attenzione. Per questa povera gente che non ha mai avuto niente è quasi un privilegio”: parole profetiche e tristissime pronunciate da Girolimoni, prima che inizi il suo calvario. L’ipocrisia e la falsità degli uomini emerge in tutta la sua freddezza e depravazione nel personaggio della madre di Tarquinio il mostro (un giovanissimo, perfetto e viscido Gabriele Lavia, la sequenza in cui accarezza i piedi della bambina è sottile, inquietante, disturbante, atroce nel suo crudo realismo), donna infida, subdola e meschina, (la vera strega malefica delle favole horror) pronta a linciare il primo che capita, anche se ben consapevole di avere l’assassino in casa. E una volta avuta la certezza non farà nulla per denunciarlo, perché troppo alto sarebbe il rischio “di non vendere più neanche un foglia di cicoria”. Meglio sorvegliarlo a vista, non importa se farà qualche altra vittima, tanto poi ci si può liberare del corpicino con la complicità della moglie di Tarquinio, magari infilandolo in un borsone (sequenza allucinante ed incredibile nella sua assurdità, culminante nel terribile sguardo di intesa tra le due donne, come a dire il pacco è stato sistemato). “Va in osteria, fatti vedere” sono le parole della madre al figlio dopo la macabra scoperta. La connivenza e l’omertà degli adulti, disposti a lasciare morire un povero cristo o altri bambini indifesi (“Che cosa si fa? domanda il fratello di Tarquinio alla madre e lei risponde categorica “Qui si fa come dico io” “E cioè” “Niente”) vengono smascherate in tutta la loro evidenza, senza sconti, senza pietà con la stessa rabbia ed indignazione della folla inferocita che nell’incipit del film era pronta a linciare un innocente. E alla fine impressa nella memoria rimane l’immagine di Gino (straordinario e toccante Nino Manfredi), invecchiato e distrutto, amareggiato ed abbattuto da qualcosa contro cui nulla ha potuto. Guarda perso nel vuoto e i nostri occhi, sconsolati e sconvolti, incrociano i suoi.
Voto: 8

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