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L'ora del lupo

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'ora del lupo

di EugenioRadin
9 stelle

L’ora del lupo è un cinema che si conosce come rappresentazione, in cui il regista sin da subito ci mette di fronte alla finzione e ci allontana allo stesso istante dalla immedesimazione cinematografica, ancora durante i titoli di testa, con le voci fuori campo di Bergman che spiega a Liv Ullmann come recitare la scena che aprirà la narrazione.E’ un prendere le distanze che va controcorrente rispetto all’identificazione spettatore/spettacolo: tentativo disperato di molto cinema, ma dell’arte stessa volendo, della musica, del teatro, ma che ha più la caratteristica di un teatro nel teatro, una mise en abymeche ha come primo livello narrativo non il film, ma l’atto stesso del filmare. Come se il film comprendesse anche ciò che è fuori dalla pellicola, il lavoro stesso del regista, come se fosse esso stesso il vero soggetto. Non siamo spettatori di una storia, ma in primis siamo spettatori del mondo di colui che la storia la racconta, dell’autore, del quale l’opera è sublimazione dell’essenza.

 

Ciò avrà poi una chiave di lettura in questo film, che è quella del “diventare simile” del diventare un’unica cosa. “Una donna che vive con un uomo finisce per essere simile a lui.” Recita la Ullmann. Allo stesso modo il cinema è la donna, l’amante del regista (e forse è possibile il contrario) i suoi film finiscono per essere materia plasmata a sua immagine e somiglianza, finiscono per essere immagini riflesse della sua persona e del suo pensiero, danno corpo e  nuova carne a i suoi incubi, alle sue fobie, alle sue angosce, proprio come in questo film, che vuole forse parafrasare il lavoro e il pericolo stesso del fare film.

 

Così come i nobili abitanti del castello in cui il protagonista (Max von Sydow) viene invitato hanno l’aspetto degli antropofagi che torturano la mente di Johan, allo stesso modo i film sono l’incarnazione dei sentimenti, delle angosce, che assillano la mente di Bergman regista. La paura della morte, della solitudine già ampliamente simboleggiata dall’ambientazione: un’isola che molto richiama l’isola di Fårö, in cui il regista stesso cercò un rifugio dal mondo.Il cinema ha il potere terribile di dare nuova carne agli incubi, proprio come le onde videodrome dell’omonimo film cronemberghiano, il potere di dare un maggiore livello di realtà a questi incubi, di condividerli con gli spettatori e di far prendere parte anche essi a questo spettacolo terrificante.Il cinema dunque, in un certo senso, è l’ora del lupo: “quell’ora tra la notte e l’alba, quando molta gente muore e molta gente nasce, quando il sonno è più profondo, gli incubi ci assalgono e se restiamo svegli… abbiamo paura.” Il cinema è un evocatore di fantasmi, una telecamera non vede solo l’esterno, ma scava l’interno e parte da quel momento buio.

 

Ma Bergman non pare accontentarsi di questo, della solitudine dell’incubo, ma ne fa esplodere il potere contagiante, rendendo schiava degli incubi del protagonista anche la moglie (e con essa noi spettatori), una sorte di vibrazione simpatica delle due anime, divenute simili a forza dello stare assieme, di quel syzen, quella condivisione del vivere che qui viene vista come la fonte di sofferenze comuni. Alma, moglie di Johan, ne legge il diario segreto e viene catturata dalle sue stesse visioni inquietanti. A noi rimane il dubbio se siano visioni o realtà, anzi il film qui si apre a diverse intriganti interpretazioni psicologiche. E se le spaventevoli visioni fossero proprie della moglie ancora prima che del marito? Se il marito stesso fosse un’allucinazione? In realtà la chiave di lettura (se mai ce ne può essere una) che mi sembra più reale è che Bergman impacchetti un ottimo thriller allucinogeno sulla crisi di coppia: i mostri antropofagi hanno lo scopo primario di voler distruggere la relazione tra Johan e Alma, fungono da seminatori di zizzania, ma solo perché Johan stesso lo vuole, egli non può vivere con gli uomini, non può amarla ed esterna negli incubi le sue stesse intenzioni.

 

Ma ha poi senso il ricercare un’interpretazione in un tale film? O è soltanto il tentativo di categorizzare qualsiasi opera in un paradigma prestabilito (l’aggettivo lynchiano ad esempio), un cedere al bisogno umano di comprensione, un rinchiudere in una gabbia dai contorni nitidi un oggetto che può trovare il suo compimento solo nella sfumatura, nell’interrogativo lasciato aperto, che può mantenere la sua integrità soltanto mantenendo un ché di sfuggevole e nascosto al razionale? Dovremmo perdere quella estrema necessità di comprensione totale in quelle opere che non vogliono essere comprese totalmente, per lasciare parte della loro bellezza anche (soprattutto) alla sensazione, alla wille irrazionale e impulsiva. Essa è propria, anzi costitutiva di ogni uomo, perciò è insita già in ogni uomo la capacità di lasciarsi rapire da ciò che alla ragione matematica appare inafferrabile.D’altra parte né Magritte né Dalì, per citare due esempi presi da un altro (un altro?) ambito artistico, potrebbero esistere senza la dimensione onirico-surreale. Non avrebbero senso, o almeno non desterebbero lo stesso interesse, se ad ognuno dei loro quadri ci si sforzasse di dare un’interpretazione logica, che è del tutto impossibile.

 

Ogni teoria dietro all’immagine in movimento è dunque accattivante, ma non costitutiva del film, né fondamentale per capirlo. Anzi talvolta può essere, anziché un aiuto, una forte privazione, un paraocchi per una visione più totale.

Quello che L’ora del lupo ci lascia, oltre alla potenza espressiva delle immagini (già la scena del bambino-demonio è di per sé un piccolo capolavoro) è sicuramente la visione drammatica del fare arte, che tale arte sia la pittura (come nel caso di Johan) o il cinema (come nel caso di Bergman). Non ci può essere arte al di là di ogni sofferenza, di ogni paura, virescit vulnere virtus: la virtù nasce dalla sofferenza. A ognuno il suo male. E noi (tant'è che la protagonista si rivolge direttamente alla telecamera) siamo i testimoni di questo male, di questo tentativo di mettersi a nudo. Buona visione, in tutti i sensi in cui la si voglia intendere.

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