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Memorie di una geisha

Regia di Rob Marshall vedi scheda film

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La recensione su Memorie di una geisha

di Aquilant
8 stelle

Susseguentemente all'esordio sugli schermi è iniziato un intenso fuoco di fila da parte dei critici più affermati contro tali melodrammatiche “Memorie”, (né si sottraggono al novero delle voci nel coro i nostri beneamati Alberto Crespi ed Enrico Magrelli) vuoi per le soluzioni registiche prettamente americaneggianti, vuoi per un eccesso di patinatismo che paga lo scotto di una scelta autoriale legata necessariamente a ben precisi criteri commerciali, vuoi per l’impossibilità di cogliere nella sua reale interezza l’intimo substrato di una cultura giapponese necessariamente letta e filtrata in chiave prettamente hollywoodiana, vale a dire occidental-capitalistica, il che a detta di taluni equivale a “banalizzante” o quantomeno a “superficiale”. Per non parlare della tempesta mediatica scatenata sulla scelta di tre (bravissime) interpreti che con il Paese del Sol levante hanno ben poco o niente a che vedere. Ben più oculata si è mostrata a suo tempo la critica dell’epoca a proposito dell’ophulsiano “Yoshiwara, il quartiere delle geishe”, toccante mélo intriso di tragico fatalismo, in cui non è ardua impresa denotare talune analogie, seppure alla lontana, con l’opera di Rob Marshall.
Ovviamente la presente voce fuori dal coro prende l’abbrivio da una vigorosa spinta emozionale alimentata dalla nutrita sequela di lussureggianti immagini che invitano ad una condiscendente predisposizione d’animo e, più in generale, ispirata da una costruzione narrativa la quale, ahimé, sotto il suo robusto strato di patinatura denota comunque un certo eccesso di preziosismi calligrafici e non difetta sicuramente di intendimenti didascalici, pressoché inevitabili d’altra parte a causa dell’intrinseca difficoltà di assimilazione da parte di un bacino d’utenza oltreoceanica di una mentalità agli antipodi di quella macdonaldiana, per la quale sovente il termine “geisha” è assimilabile con quello di “prostituta”. Indispensabile a tal punto richiamare le parole della pigmalionica ed accattivante Mameha (Michelle Yeoh): “Remember, Chiyo, geisha are not courtesans. And we are not wives. We sell our skills, not our bodies. We create another secret world, a place only of beauty. The very word geisha means artist and to be a geisha is to be judged as a moving work of art.”
Ma limitarsi a tali generiche considerazioni sarebbe sicuramente rendere scarso merito ad un’opera che soltanto nel finale non manca di scadere in un facile sentimentalismo di facciata, ma che per quasi l’intera sua parabola narrativa ci permette di abbandonarci alle più recondite sensazioni derivanti dalla visione di sequenze dall’ammaliante fascino esotico, ravvivato a tratti da sottili raffinatezze visive della medesima consistenza delle trame di fili di preziosa seta. Appare a tal punto inevitabile abbandonarsi a tutta una serie di vibrazioni interne che marciano di pari passo con la folgorante ascesa alla gloria della crisalide Chiyo dagli occhi stracolmi di tenerezza che si trasforma a poco a poco nella meravigliosa farfalla Sayuri, una Zhang Ziyi tutta da baciare e da venerare in devoto silenzio, che neppure gli scoppi di un irreparabile conflitto, peraltro appena accennato di straforo per non turbare oltremodo gli equilibri narrativi della vicenda, riescono a distogliere completamente dalla sua passione segreta (A story like mine should never be told... I wasn't born to a life of a geisha).

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