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Il giorno dei lunghi fucili

Regia di Don Medford vedi scheda film

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La recensione su Il giorno dei lunghi fucili

di Decks
7 stelle

Un film che punta tutto sulla sceneggiatura affibbiandoci una potente lezione di psicoanalisi. Più che ringraziare Medford dovremmo ringraziare Peckinpah, da cui il regista non solo si è basato, ma ha plagiato la sua intera opera. Merita comunque di essere visto e ricordato essendo il miglior film di Medford e pressochè sconosciuto.

Considerando che il maestro Sam Peckinpah dovette combattere pressochè per tutta la sua intera carriera contro produttori e critica; causa l'aver demolito tutti gli archetipi del classico western alla statunitense (stile John Wayne per intenderci), a Don Medford non poteva di certo andare meglio.

Se il tempo rese a Peckinpah i giusti riconoscimenti, il film di Medford, invece, è ancora oggi sconosciuto ai più.

Un vero peccato, considerando che nella sfortunata professione cinematografica del regista questo è senz'altro il suo miglior lavoro.

 

 

Il regista di Detroit probabilmente ci aveva visto lungo e decise di seguire la appena nata scia del western iper-realistico e violento inaugurato da Peckinpah con lavori quali "Sierra Charriba" e "Il Mucchio Selvaggio"; fu una delle poche occasioni che ebbe per confrontarsi con il grande pubblico e purtroppo sia quest'ultimo che la critica lo stroncarono sonoramente.

D'altro canto, mi è impossibile difendere a spada tratta il lungometraggio di Medford, proprio a causa di queste grosse (troppe) similarità con Peckinpah.

 

Sparatorie, dialoghi, scene di sesso e chi più ne ha più ne metta, sono tutte identiche a quelle già viste nei lavori del vecchio zio Sam; siamo ad un livello tale che, probabilmente, uno spettatore meno informato e appassionato di cinema vedendo questa e successivamente una qualsiasi altra opera di Peckinpah potrebbe pensare che i film appartengano allo stesso regista.

In più, le poche volte che Medford tenta di allontanarsi dalla carreggiata delineata da Peckinpah, aggiungendovi qualcosa di più personale, sono proprio quelle sequenze ad essere meno riuscite, facendo perdere smalto e tensione alla pellicola.

In conclusione, viene lecito pensare che Medford sia un ottimo intenditore di cinema, ma un misero mestierante e che senza tutti gli elementi ricopiati e scimmiottati dai film western del collega ben più famoso, non sarebbe mai riuscito a tirar fuori una simile opera.

 

Regia, montaggio, effetti speciali e fotografia non sono esenti dalla suddetta affermazione: Medford e i suoi collaboratori trascrivono e ricalcano pari passo Peckinpah sperando che il proprio film cavalcasse la cresta dell'onda del nuovo modo di fare western.

Abbiamo sangue a fiotti, una fotografia sporca e giallastra, un montaggio alternato e velocissimo durante le scene di inaudita violenza, le quali sono esaltate sia dalla macchina da presa che si focalizza su volti sadici o ricolmi di disperazione, ed accludere il rallentatore per sottolineare maggiormente l'efferatezza delle sparatorie.

 

 

Il film, però, non è un semplice ricalco: ha dalla sua una sceneggiatura meravigliosa che come poche altre riesce a mostrare la natura animale dell'uomo.

Frank e Brandt non sono più il fuorilegge e il buon cowboy che si scontrano verbalmente e a colpi di pistola in un paesino assonnato del Texas, sono invece personaggi scritti con un'accuratezza incredibile; due simboli sociologici in conflitto, non a causa della loro personalità o scelta di vita, ma per il loro istinto.

In particolar modo dominano le teorie di Freud e del concetto sessuale ideato dal filosofo austriaco: l'uomo non può resistere ai propri desideri inconsci e primitivi malgrado il continuo tentativo di celarli. Ed è proprio ciò che avviene alla maestra Melissa: rapita da un criminale sessualmente più appetibile, più vigoroso e persino più giovane del proprio marito, a nulla serviranno le imposizioni coniugali, Melissa cederà alle sue passioni più primitive.

 

Come lei, Brandt e Frank scendono lentamente in quella bestialità che l'uomo tenta continuamente di celare al mondo, facendo rassomigliare l'intera pellicola quasi ad un documentario sugli animali, dove la femmina abbandona il compagno ormai vecchio e impotente per un vero e proprio stallone ed i due si scontreranno inevitabilmente, ma c'è una differenza, gli animali non hanno fucili.

Questo è il fulcro dell'intero lungometraggio: se Brandt e Frank fossero due bestie, lo scontro si risolverebbe in poco tempo con la vittoria del più giovane e possente tra i due; invece, malgrado Brandt sia un completo fallimento in ambito sessuale, può trovare e dare sfogo alla sua virilità con delle armi più lunghe e potenti di qualsiasi membro (perdonatemi l'ambiguità).

Uno scontro bestiale di cui si accorgono anche le persone intorno a questi due leoni della savana, che tentano di dissuadere sia Brandt che Frank da una lotta inutile e folle, animalesca per l'appunto, ma entrambi non sentono ragione e similmente a due personaggi freudiani continuano imperterriti la loro lotta esclusivamente mossi dagli istinti più beceri.

Geniale la scelta di non far mai parlare tra di loro i due antagonisti, dando così alla loro lotta un senso ancor più ancestrale e primordiale.

 

 

Da non dimenticare le musiche minimaliste e particolarmente riuscite di Riz Ortolani: un misto di tensione e armonia quasi precursori del futuro spaghetti western.

In più il trittico di attori Gene Hackman - Oliver Reed - Candice Bergen se la cava benissimo sullo schermo oscurando qualsiasi altra interpretazione da parte dei secondari: Hackman interpreta un cattivo quanto mai semplice, ma allo stesso tempo sadico e determinato a mantenere intaccato il suo ruolo di maschio alfa; meravigliosi i suoi sorrisetti goduriosi quando spara con il suo fucile, proprio come fosse una pratica di autoerotismo.

Anche la Bergen è bravissima a mostrare un lento liberarsi dei suoi istinti più reconditi: inizialmente fedelissima al marito e sottomessa sia fisicamente che mentalmente al suo uomo, si toglierà di dosso le maschere da mogliettina perbene diventando ciò che è realmente.

 

Un film che punta tutto sulla sceneggiatura affibbiandoci una potente lezione di psicoanalisi, unita ad un violento realismo. Più che ringraziare Medford dovremmo ringraziare Peckinpah, da cui il regista non solo si è basato, ma ha plagiato la sua intera opera su tecnicismi e tematiche del vecchio Sam.

Merita comunque di essere visto e, soprattutto, ricordato. Difatti, oltre ad essere semi-sconosciuto, è il film migliore di Don Medford.

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