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Crash - Contatto fisico

Regia di Paul Haggis vedi scheda film

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La recensione su Crash - Contatto fisico

di spopola
8 stelle

Per essere una prima regia Haggis è bravissimo a dominare la materia di questa parabola a più voci che narra gli accadimenti di una giornata qualsiasi in una infernale metropoli (Los Angeles) ostile e desolata, schiacciata fra paradossi e devianze riuscendo ad essere al tempo stesso spericolato ed aggressivo, poetico e disturbante.

Stupefacente esordio alla regia di un talentoso sceneggiatore di successo (Million Dollar Baby) i cui meriti vanno ben oltre la perfezione stilistica di uno script avvolgente, ineccepibilmente implacabile e cattivo nella descrizione "circolare" di ascendenza altmaniana, di storie e situazioni che mettono a nudo con impietosa crudeltà e sottinteso cinismo, quasi fossero sezionate da un bisturi affilato che lascia profonde tracce sanguinanti - pur con la necessaria dose di ironia e di "eccessi catartici" che favoriscono l'indispensabile distacco critico del "giudizio" - le contraddizioni, le solitudini, gli egoismi, i pregiudizi, il razzismo latente e/o manifesto, i compromessi e gli "aggiustamenti di comodo", il disfacimento morale insomma di una civiltà allo sbando ormai difficilmente recuperabile. Una solitaria e inascoltata invocazione (quasi un'orazione laica) contro il razzismo, un inno alla tolleranza e al rispetto in questa America post 11 settembre sconvolta e sconvolgente, una denuncia priva di retorica della paura (e delle conseguenze indotte che ne derivano) o meglio, e più propriamente, della DIFFIDENZA CHE GENERA PAURA e che modifica per questo, distorcendole, le nostre percezioni oggettive dei fatti e delle cose. E' una descrizione apocalittica di un contesto degenerato e assurdo, dove i "buoni" non sono davvero buoni, e nemmeno i "cattivi" in fondo sono totalmente cattivi: c'è soltanto incomunicabilità e incomprensione e mancanza di "contatto" effettivo; c'è lo "scontro" e la prevaricazione, in questa deriva inarrestabile che non consente scampo o salvezza per nessuno. Tutti sono disperatamente soli e circospetti, imprigionati in quella Torre di Babele che non permette evasioni o momenti di abbandono al sentimentalismo e alla condivisione, ma costringe a rimanere sempre guardinghi e in difesa, pronti a colpire per non essere colpiti. Ed è l'uso sapiente della macchina da presa, i ritmi incalzanti degli incastri e dei rimandi a sorprendere, l'assoluto e completo dominio della materia narrata che si traduce in un autonomo linguaggio cinematografico, ad evidenziare ed esaltare le non comuni doti di questo esordio, amplificandone il valore e l'importanza nella frammentata ricomposizione di questo puzzle tremebondo che non lascia spazio al caso e all'improvvisazione. Paul Haggins riesce ad essere al tempo stesso spericolato ed aggressivo, poetico e disturbante (di rapinosa bellezza fra le altre, la sequenza intorno all'auto che va a fuoco fra bagliori e faville, in quella specie di rituale orgiastico) rimanendo vigile e attento nel tracciare una parabola a più voci, priva di sbavature o di ghirigori formali spesso fuorvianti, e nel mantenere sotto il controllo di un cosumato "mestiere" - e si tratta di un'opera prima!!!! - l'infuocato materiale, quasi un congegno ad orologeria, che ci costringe ad immergerci con doloroso stupore negli accadimenti di una giornata qualsiasi di una Los Angeles di vetro e cemento, infernale metropoli ostile e desolata, schiacciata fra paradossi e devianze. I personaggi che si inseguono, si circuiscono, si sfiorano e si scontrano (spesso fanno "crash", ma più che i corpi o le cose, sono le coscienze, i principi e le certezze a sfadarsi e deflagrare) non si "toccano" mai davvero, non riescono ad "incontrarsi" ed entrare in sintonia, tesi come sono alla disperata difesa dei propri privilegi e di quelle certezze inalienabili, anche a costo di intaccare libertà e diritti altrui nel coacervo di razze ed etnie scarsamente integrate e difficilmente integrabili. Le emozioni che gli ispirati interpreti di tutta questa moltitudine di figure e figurine che attraversano lo schermo intrecciando fra loro destini e predestinazioni, sono fortissime e profonde, quasi destabilizzanti nella implacabile consequenzialità della progressione verso il dramma. Le ascendenze e i rimandi sono molteplici (dal cinema di Altman appunto, fino a Magnolia di Anderson, che ne è un epigono diretto e ispirato, per passare attraverso le implicazioni esistenziali di "21 grammi" e similari) ma il linguaggio rimane così autonomo e personale, da farci salutare con piacere la nascita di un nuovo geniale "raccontatore" per immagini che completa e integra la suadente efficacia, già ormai ampiamente consolidata e apprezzata, dello scrittore di rango.

Su Brendan Fraser

Efficacie ed affascinante

Su Ryan Phillippe

Esemplare, nella resa poliedrica di uno dei due personaggi più definiti dell'intera pellicola

Su Thandie Newton

Matura e sofferta (la sua prova più convincente dopo quella eccezionale offerta in Beloved)

Su Jennifer Esposito

Umana e appropriata

Su Sandra Bullock

Finalmente fuori dallo stereotipo in cui è spesso costretta, si dimostra efficace e sobria nel tratteggiare le inquietudini e le contraddizioni del suo personaggio

Su Matt Dillon

Il più disturbante e sofferto... come al solito, impeccabile

Su Don Cheadle

Perfettamente in parte

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