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Bubble

Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film

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La recensione su Bubble

di spopola
8 stelle

Una rappresentazione molto efficace del vuoto pneumatico che ci circonda, che osserva con precisione entomologica, implacabile acutezza e adeguata distanza critica, le anime smarrite ormai incapaci di riconoscere e confrontarsi con le proprie emozioni, che si muovono e si agitano dentro a una specie di acquario che non permette loro di nascondersi.

Si può fare del buon cinema con pochi soldi ma con sufficiente intelligenza da rendere interessante ed emotivamente coinvolgente la proposta? A giudicare dai positivi risultati raggiunti da Soderbergh con “Bubble”, rappresentazione impietosa del “vuoto” pneumatico che ci circonda e ci pervade, responsabile della progressiva atrofizzazione di rapporti, sentimenti e reazioni, direi proprio di sì, e che sono semmai questi i requisiti a lui indispensabili per raggiungere un traguardo così elevato. Il regista infatti al di fuori degli schemi precostituiti del sistema, è finalmente “libero” dai compromessi, e può permettersi il lusso con indubbia capacità autoriale, di “scrutare” impietosamente i pochi personaggi di questa storia, con implacabile acutezza, e lo fa utilizzando un metodo - oserei definirlo Brechtiano - che a mio avviso permette di mantenere sempre la “distanza critica” dal contesto narrato, un acquario "illuminato a giorno" e senza zone morte per nascondersi ed occultarsi, dove si agitano anime perdute e “decerebralizzate” (incapaci cioè persino di confrontarsi con le proprie emozioni) che non riescono nemmeno ad essere “disperate”, prive come sono di speranze e di “progetti” o di valori etici fondanti che possano dare un qualche senso alla loro esistenza. Non c’è molto da “evidenziare” nelle vicende dei protagonisti che animano l’alveare oggetto dell’analisi, un poco significativo agglomerato di costruzioni di una altrettanto anonima cittadina del Middlewest depressa e conformista, davvero lontana anni luce dalle utopiche illusioni del “sogno americano”, e arroccata senza futuro o prospettive, intorno a una fabbrica di bambole (e ad altre pochissime realtà lavorative) che consente per lo meno la sopravvivenza, ma non permette di “sperare” (o "sognare progetti") per la costruzione di una vita di “relazioni” e di “affetti” che abbia qualche possibilità concretamente “futurizzabile” di uno sbocco “realizzativo” della propria esistenza. E’ una realtà questa molto radicata e consistente nelle depresse periferie suburbane senza ideali che contribuisce a far smarrire il senso profondo della vita e a "precarizzare" i rapporti (quasi e singolarmente a “deresponsabilizzare”), rendendo così persino difficile (per non dire impossibile) il confronto con la coscienza e le imputabilità, siano esse individuali o collettive, scientemente “scelta” come paradigma significativo del teorema, attraverso il dipanarsi di una (non) storia che “disegna” i contorni dei tre protagonisti e li accompagna in un percorso alienato che annullerà ogni “reazione” nell’indifferenza, e che nemmeno un omicidio riuscirà a ravvivare e rendere vitali e partecipativi (i superstiti naturalmente). E’ il vuoto e il nulla che pervade le vite di Kyle, complessato ventenne riservato e insicuro, reso ancor più amorfo dagli psicofarmaci necessari a contenere la sua depressione e le crisi di panico che lo obbligano a stare lontano da luoghi affollati "infidi e avversi”, costretto per sopravvivere, a più lavori che “saturano” l’esistenza senza possibilità di elaborare "programmi alternativi" o di ritagliarsi salutari "intervalli" di momentanea evasione dal grigiore della ripetitività, o quella di sua madre che invece lavoro non ha e che passa le giornate sprofondata su un divano di fronte alla Tv, spesso inebetita e assente; è il vuoto e il nulla la consistenza della vita di Martha, obesa ragazza “senza età”, compressa fra il lavoro nella fabbrica delle bambole che svolge con diligente solerzia e la cura del padre malato e semi infermo che accudisce con dedizione quasi maniacale nei pochi spazi di libertà. Entrambi attigui (seppure con mansioni diverse) nel laboratorio all’interno del quale prestano la loro opera, hanno fuggevoli (quanto scarsamente coinvolgenti) rapporti di contatto verbale durante i frugali pranzi nelle pause di riposo (o nei tragitti fra le loro case e il lavoro) sufficienti però a creare l’illusione di un legame di amicizia e di “interscambio umanizzato”. Le loro giornate trascorrono così immutabili e ripetitive, in una progressione geometrica che non lascia davvero scampo: lavoro, piccole pause per mangiare, due chiacchiere per riempire silenzi imbarazzanti e senza senso, ancora lavoro, il riposo notturno e poi di nuovo da capo. Sarà Rose, giovane e irruenta (ragazza madre amorale e dedita a piccoli furti per arrotondare il bilancio), da poco assunta per fronteggiare una nuova commessa lavorativa molto grossa, a inserirsi nelle loro esistenze in maniera apparentemente discreta, ma sufficiente per “rompere” i precari equilibri in modo definitivo e deflagrante, a far emergere le contraddizioni e a creare la “crisi”, determinando la “catarsi”: quando si cammina sospesi in equilibrio su un filo è estremamente facile perdere l'appoggio e "cadere" rovinosamente anche in presenza di fatti "minimali" o di sbandate inavvertite. Ci sarà un omicidio allora, un fatto che "potrebbe" (dovrebbe) interrompere la monotonia e i ritmi, purtroppo incapace, nonostante la gravità dell'avvenimento, di colmare questa desolante mancanza di valori: tutto rimane "fluttuante" nel limbo inconsistente dell'incoscienza, come se si trattatte di un fatto avulso e lontano, appartenente a una differnte dimensione, la "trama" irreale di un serial televisvo di scarso appeal distrattamente osservato attraverso la distanza deformata del tubio catodico. Ma non è ovviamente l’aspetto “giallo” della vicenda quello che sta a cuore al regista, e lo si avverte da come viene trattato il percorso relativo alla ricerca (scontato, acquisito e poco significativo se non per la evidenziazione della mancanza di conseguenze "psicologiche" dell'atto) del “colpevole del misfatto”. A Soderbergh preme semmai puntare il dito su altri aspetti molto più ambiguamente destabilizzanti, come appunto l'assenza di “reazioni” capaci di interrompere l’apatia di questa agghiacciante realtà disarticolata, persino di fronte a fatti definitivi come quelli di un assassinio. E' l'incapacità di "comprendere" il peso delle proprie azioni o di mettere in discussione i propri atti prendendone coscienza e assumendosi per lo meno "la responsabilità della scelta" operata. E'la sconcertante assenza del "pensiero critico", che costituisce un pericoloso (quanto inutile, perchè sterile e improduttivo) tentativo di fuga dalla realtà e dai problemi. E’ la violenza sotterranea e furiosa che si nasconde sotto la superficie, pronta ad esplodere sorda e devastante se appena leggermente sollecitata, così presente ed avvertita, ma rifiutata e rimossa a privilegiare l’ottica della visione "scelta" dal regista. E’ l’analisi entomologica di una provincia depressa e insoddisfatta, che nemmeno l’atto estremo della morte riesce a risvegliare e rendere attivamente "pensante" a focalizzare il suo interesse e a tenere viva l’attenzione della macchina da presa che “rovista e scruta” ma che non a caso si ferma (pudore o "mancanza di coraggio"?) un momento prima (appena a ridosso dell’acquisizione del “ricordo” del misfatto) di farci fare il passo definitivo necessario per sprofondare "davvero" nel baratro: siamo sull’orlo del precipizio e osserviamo, abbiamo la consapevolezza della profondità del burrone che ci sta davanti, ne percepiamo l’orrore, ma ci arrestiamo lì, in bilico ma saldamente attaccati alle nostre "certezze" perché non ci vengono forniti gli strumenti necessari per varcare il limite e diventare davvero "consapevoli". Girato tutto in digitale, “Bubble” è un film molto duro che si imprime indelebile nella mente senza concedere tregue o possibilità di scampo allo spettatore e che ci induce per questo a riflettere e a "impaurirci" persino, così sconsolato e "definitivo" come è (perché la strada che sta percorrendo la nostra società è quella che "scorgiamo" sullo schermo, e per lo meno su questo punto, non ci sono dubbi, non possiamo concedere attenunati), aiutato da un eccellente supporto “fotografico” (ad opera dello stesso regista) che sembra (e ci riesce perfettamente) restituirci in movimento la poetica delle “immagini” analogamente agghiacciate, rese immortali dall’arte pittorica di Edward Hopper, e da un altrettanto ossessivo e “ripetitivo” supporto musicale opera di Nick Drake e della sua malinconica chitarra acustica, capace di amplificare con la reiterazione degli accordi, il senso di straniamento già elevato ottenuto anche grazie alla particolare "impronta stilistica" imposta alla recitazione, spesso "fredda" e quasi "impersonale". Di notevole interesse quindi anche la resa di tutti gli interpreti, “attori” non professionisti perfettamente adeguati ai ruoli e alle tipologie raccontate, in assoluta sintonia con le "richieste" e le necessità espressive del regista. Certamente questo è il risultato più maturo e interessante raggiunto da Soderbergh, spesso un furbetto cavalcatore dell’onda che sa “fiutare” (adeguandosi con perfetto tempismo) da che parte soffia il vento migliore (e anche in questo caso, nonostante i positivi risultati raggiunti, si ha in qualche modo il dubbio che l’operazione sia più il frutto di un deliberato “calcolo” per possibili riconoscimenti autoriali fuori dal sistema, che di una profonda e sentita ispirazione volta a “denunciare” e “incidere” davvero). Per giudicare pienamente il suo operato, dovremo però probabilmente aspettare di poterci confrontare con le successive opere che realizzerà, visto che “Bubble” fa parte di un progetto ambizioso e innovativo (anche per gli insoliti metodi di distribuzione in contemporanea fra i vari supporti disponibili) che comprenderà altre quattro tappe di continuità "ampliativa" del discorso testè iniziato. Soderbergh ci ha abituati da tempo a questi scarti imprevisti, passando con indiscutibile perizia fra progetti e risultati differenti (se non addirittura diametralmente opposti) ma rimane in ogni caso difficile immaginare questo film come l’opera della stessa mano di chi ha diretto “scherzi” commerciali simpaticamente innocui come “Ocean’s Eleven” o “Out of Sight”… quindi, a scanso di possibili equivoci, è meglio restare "guardinghi" e in attesa prima di "osannare" a piena voce, perchè - come ripeto - almeno a me qualche piccolo dubbio rimane, sotterraneo ma maligno, soprattutto a causa del forse eccessivo "contenimento dei toni" singolarmente spesso prosciugati soprattutto nell’epilogo, di quella cattiveria crudele e profonda che riusciva ad acquisire il senso della denuncia e della condanna, in opere ben più articolate e complesse anche nella definizione della psicologia dei personaggi, come - tanto per fare qualche esempio - “Elephant” di Gus Van Sant o “Happiness” di Tod Solondz, (ma anche - permettetemi l’ardire – “Texas” di Paravidino), pellicole queste (ma non solo) con le quali a mio avviso, “Bubble” ha più di un elemento di contatto e qualche "debito" di riconoscenza.

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