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Germania anno zero

Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film

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La recensione su Germania anno zero

di Aquilant
8 stelle

Quadro fedele di una città semidistrutta in cui tre milioni di persone vivono e si nutrono della loro miseria al soffio di un forte vento di mercato nero, “Germania anno zero” si snoda tra situazioni che diventano giorno per giorno sempre più disperate. E intanto discorsi datati del (fu)fuhrer come calcinacci spazzati via dal vento della storia riecheggiano da furtivi giradischi in uno spazio ristretto in cui non c’è più tempo per lo sfogo di ingombranti sentimenti amorosi e dove l’obbligo di soccombere alla svelta suggerito ai malati per permettere ai più forti di sopravvivere assume lo stesso valore di un’agghiacciante verità. Generazioni perdute incapaci di arrestare una sciagura annunciata a ritmo di grancassa ma coscienti di un’ignavia di cui sono costretti a pagare le conseguenze costeggiano per un lungo tratto l’arco della narrazione, rappresentate principalmente dal piccolo Edmund, del tutto consapevole della propria condizione, disposto anche a scavare fosse al cimitero pur di mantenere la sua indigente famiglia. Personaggio chiave della vicenda, referente suo malgrado di quell’infanzia ariana arbitrariamente predestinata a dominare il mondo, il bambino è costretto a portare interamente sulle sue esili spalle il peso di una disfatta che suona come una maledizione per la sua generazione, deciso ad affrontare un mondo ostile completamente sfiancato dalla guerra con gli occhi di chi ormai ha visto tutto e non ha più paura di essere ulteriormente toccato da una sorte avversa. Anima in rovina in una serie di vagabondaggi nel cuore della città morta, costretto a rendere conto di colpe non dovute alla sua responsabilità tra rintocchi di lugubri musiche di sottofondo mentre la sua infanzia svanisce in un tonfo, maceria tra macerie, il candore e l’innocenza d’un tempo smarriti in pochi istanti. Il film risente ancora di più rispetto a “Roma città aperta” di un impianto aperto ad estemporanee soluzioni narrative e di una sceneggiatura approssimativa e poco attenta ad un procedere omogeneo del filo del racconto, con una conseguente discontinuità nell’andamento generale che comunque non riesce ad intaccare minimamente la sua fluidità e nulla toglie alla sua notevole qualità artistica. Si evidenzia qualche disarmonico salto temporale tra una sequenza e l’altra unitamente ad alcune soluzioni narrative che non riescono a trovare il giusto compimento. Difetti peraltro abbondantemente compensati dalla spontaneità e dall’immediatezza dell’opera, conseguenze dal “nuovo stile” del regista già sperimentato in “Roma città aperta”, consistente nel “lasciar parlare la realtà” per dar vita ad un naturale flusso narrativo generato dalla storia medesima senza alcun intervento esterno. Datato ma suggestivo. Per appassionati del genere e non solo.

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