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La fabbrica di cioccolato

Regia di Tim Burton vedi scheda film

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La recensione su La fabbrica di cioccolato

di FilmTv Rivista
8 stelle

Su tutto, naturalmente, c’È Dickens, il grigiore, la miseria e le suggestioni del vittorianesimo, la povertà e la dignità di Davide Copperfield, la marsina e il cappello a tuba di Willy Wonka-Johnny Depp uguali a quelli del giovane dandy Alec Guinness in Grandi speranze di David Lean, i golfoni e i mezzi guanti da piccola Dorritt infreddolita di Helena Bonham-Carter, una casa sbilenca e una fabbrica minacciosa con i cancelli che si chiudono davanti agli operai licenziati e sbigottiti, e la neve, che cade e “spolvera” tutto, come in una cartolina natalizia d’epoca, leggermente inquietante, grigiazzurra e bianca, incisa dai flash rossi dei furgoncini, i motorini, gli omettini della Wonka Factory. Jack Skellington, signore di Halloween, si è spogliato dei suoi panni tristi, si è tagliato i capelli alla paggetto, si è vestito di pelliccia e velluto rosso, e celebra il suo Natale tutto l’anno, immerso nei colori scintillanti, gli odori, i sapori del mondo di delizie che si è costruito oltre i cancelli della fabbrica di cioccolato. Ma il cuore di Willy Wonka è molto meno tenero di quello di Jack Skellington, il suo ingegno altrettanto aguzzo ma più perverso, eccitato più dal fastidio che dal bisogno di compagnia, il suo infantile desiderio di rivalsa (nutrito da un austero padre dentista-ex vampiro, l’impagabile Christopher Lee) sovrasta e offusca qualsiasi voglia di tenerezza. Come se Edward mani di forbice (che rivediamo in un lampo, cresciuto e agghindato, quando Willy taglia il nastro rosso inaugurale) si fosse adattato al mondo stupido e aggressivo degli adulti. E, diverso e fragile, snob fino al midollo, misantropo e insicuro, avesse attraversato lo specchio, come Alice. Lewis Carroll è il secondo padre naturale di La fabbrica di cioccolato (del libro di Dahl, erede di questi autori molto più sottile e viscerale della JK Rawling di Harry Potter, e del film di Burton che, nero, allampanato, capelli e occhi spiritati, pare lui stesso uscito da un racconto di Natale di Dickens). Più Attraverso lo specchio che Alice nel paese delle meraviglie (anche se nella fabbrica si entra da una porta in miniatura di disneyana memoria). Il mondo di là realizza i sogni della più crudele Regina di Cuori: tra fiumi di cioccolata, alberi canditi ed erba di menta (una visione infantile e spiazzante del Giardino delle delizie di Bosch), in un proliferare di Umpa-Lumpa arcigni, ironici e ballerini (i piccoli abitanti di Umpalandia che si nutrono di semi di cacao e che ora costituiscono la forza lavoro della fabbrica - tutti interpretati dall’impassibile Deep Roy), scopri chewingum che ti fanno crescere fino alle proporzioni di un mirtillo gigante e bluastro, scoiattoli stizzosi che ti gettano nel tritarifiuti come fossi una noce bacata, una stanza tutta bianca kubrickiana dove un teletrasporto ti miniaturizza come l’indimenticabile “shrinking man” e ti travasa dentro uno schermo, tra gli scimmioni di 2001 che aspettano il loro monolite di cioccolata. Così parlò Zaratustra. E così parlò Willy Wonka, che è, tutti insieme, la Regina e il Cappellaio Matto, la Lepre Marzolina e Humpty Dumpty e lo Stregatto (con quel sorriso evanescente e ben curato, dai premolari inconfondibili), mago, inventore, viaggiatore nel suo mondo che rovescia quello delle fiabe e fa alla sua maniera giustizia delle brutture esterne, dei piccoli geni e di quelle che vincono, degli obesi e delle principessine viziate. Non è che Charlie gli piaccia più degli altri; forse, è solo meno molesto e ha conservato, insieme al nonno che lo accompagna, un’umanità antica che accende una scintilla di passato, un rimpianto, un desiderio: una famiglia dove una tavoletta di cioccolato si divide in sette e quattro nonni dormono insieme in un unico letto, una casa scomparsa che ha lasciato un buco vuoto, il miraggio di un’infanzia felice, di una tavola alla quale sedersi e sentirsi sicuri. Quello che Willy, il Pinguino, Edward, Batman, abbandonati o in fuga da padri-stregoni, non hanno avuto. Quello che Tim Burton sogna e ci invita a sognare, ancora una volta, con la sua fiaba magnifica e inquieta: come Edward e Will Bloom (Big Fish<(i>), tentare di fare pace con se stessi, con la vita immaginata e quella vera, con una purezza di cuore che non ritorna, ma non va dimenticata.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 39 del 2005

Autore: Emanuela Martini

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