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Il gabinetto del dottor Caligari

Regia di Robert Wiene vedi scheda film

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La recensione su Il gabinetto del dottor Caligari

di Peppe Comune
10 stelle

Francis (Friedrich Fehrér) racconta una storia dai connotati misteriosi ad un interlocutore occasionale (Hans Lanser-Ludolff). Quella che ha come protagonista uno strano signore che si fa chiamare Dottor Caligari (Werner Krauss). Questi giunge alla fiera del piccolo paese tedesco di Holstenwall in compagnia di una tomba al cui interno dorme Cesare (Conrad Veidt), un uomo affetto da sonnambulismo che Caligari esibisce come un fenomeno da baraccone. Perché Cesare, quando è sveglio, è capace di predire il futuro a chi glielo chiede. Ma la cosa strana è che dal suo arrivo nel paese iniziano a capitare morti sospette. Poi Francis racconta che proprio lui ha trovato un diario segreto dei primi anni del settecento appartenuto ad uno psicologo di nome Caligari e che questi si serviva di un uomo affetto da sonnambulismo per fargli compiere efferati delitti. Chi è questo strano signore che si fa chiamare Dottor Caligari  ? Che si sia voluto sostituire al vero Caligari per copiarne le gesta delittuose ? Che ruolo ha Cesare in questa strana storia ? È vittima o cos’altro ? Ma soprattutto : il racconto di Francis è vero o è tutto frutto della sua fantasia deviata ?

 

Conrad Veidt, Lil Dagover

Il gabinetto del dottor Caligari (1920): Conrad Veidt, Lil Dagover

 

“Il gabinetto del Dottor Caligari” di Robert Wiene è un congegno espressionista che rasenta la perfezione. Già per come si pone “sinistramente” tra la crisi incipiente della “giovane” Repubblica di Weimar e il prossimo avvento del regime nazista. Attraverso un senso di morte che pervade la pellicola, che nel mentre la immerge in un tempo storico irto di incertezze, già lascia intravedere i prodromi di una sciagura prossima a venire. In questo film sono presenti tutti gli ingredienti che conducono al fondamento poetico dell’ Espressionismo : la realtà letta attraverso la condizione psichica ed emotiva dell’essere umano. Con l’ Impressionismo, è la realtà oggettiva ad imporsi sulla percezione critica dell’artista. È ciò che stupisce nella sua “impressionante” bellezza che deve essere catturato dal talento artistico. Con l’Espressionismo, invece, la creazione avviene esternamente rispetto a questo intuitivo schema mentale. La realtà oggettiva non può prescindere dall’essere filtrata dall’occhio “interpretativo” dell’artista. Che ne riflette i lati più oscuri e nascosti, quelli meno tangibili all’occhio umano ma comunque suscettibili di indirizzarne lo sguardo.

“Il gabinetto del Dottor Caligari” appartiene a quella categoria di film che maggiormente hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo della grammatica cinematografica. Al di là della sua intrinseca bellezza, in esso ci sono presenti alcuni temi che percorreranno per intero tutta la storia del cinema. Primo, il tema del doppio legato alla marcata spersonalizzazione dell’individuo, sia con riferimento alla volontà di potenza che lo porta a voler adottare la personalità di un altro (in sedicente Dottor Caligari che si sostituisce di fatto a quello vero), sia riguardo al suo essere manipolato da una volontà eterodiretta, portato quindi a compiere azioni che non gli sono proprie (la sorte di Cesare). Secondo, l’uso del flashback come modalità di racconto filmico che si sviluppa su più livelli narrativi. Si adottano più punti di vista per produrre meglio la sensazione di trovarci in una dimensione altra, sospesa tra realtà e sogno, fatti concreti ed eventi fantasticati. Terzo, la presenza materica di una paura che è più psicologica che fisica, prima legata al racconto incentrato alla figura ambigua del Dottor Caligari, e poi alle sue presunte malefatta. Quarto, il ruolo delle luci e degli spazi come concreta forma di linguaggio e come estetica riconoscibile da applicare alla messinscena. Quinto, il terrore panico per i fantasmi interiori e per le cose del mondo che non si conoscono.

Con “Il Gabinetto del Dottor Caligari”, il cinema scopre l’angosciosa sensazione di vedersi rinchiusi in uno spazio limitato che sembra non voler concedere vie d’uscita. Strade “labirintiche” che si allungano verso un’oltre indefinito, una messinscena dominata da forme geometriche appuntite, ombre che si allungano minacciose oltre la loro estensione naturale, abbondanza di piani fissi che indugiano sugli occhi esterrefatti dei protagonisti, figure coniche che puntano dritte verso gli orizzonti incerti delimitati dalla mente umana. Tutto contribuisce a generare una condizione di oppressione claustrofobica, che nel mentre sembra imprigionare gli attori in una realtà senza scampo, gli fornisce nel contempo degli sbocchi allucinatori attraverso la percezione deviata dello stato delle cose. La psiche diventa luogo di creazione di un mondo stratificato su diversi livelli cognitivi. Gli attori aderiscono perfettamente all’obliquità delle forme imposta dalla scenografia (dei pittori espressionisti Herman Warm, Walter Reimann, Walter Rohrig), assecondano le linee zigzagate che perimetrano la spigolosità degli spazi. Diventano una parte indistinguibile della messinscena, riflettendone tutta l’ambiguità maleodorante, tutta l’aurea minacciosa che le sue architetture acuminate sanno trasmettere. È in effetti la scenografia la protagonista silente del film, una costruzione artificiosa che si erge a palcoscenico ideale per una rappresentazione possibile delle ataviche ossessioni umane, tra stati allucinatori e afflato onirico, dimensione soggettiva della psiche e presenza oggettivata dell’elemento fantastico.

Una pietra miliare che ha prestato a piene mani la sua grammatica. Ben oltre l’usura del tempo.

       

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