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Furia selvaggia

Regia di Arthur Penn vedi scheda film

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La recensione su Furia selvaggia

di scapigliato
8 stelle

Paul Newman è mai stato così bello? É mai stato così bravo? L’operazione introspettiva di Arthur Penn che viviseziona al sole cocente del New Mexico, nella contea di Licoln, il suo personale Billy the Kid, erede dell’ambiguità omosessuale del precedente “Il Mio Corpo ti Scalderà” di Hughes, e antesignano del ribelle tout-court alla Peckinpah, è un Billy Kid inquieto, tormentato, allucinato, fragile, scisso, rabbioso, isterico, melodrammatico. Insomma, un po’ tutto ciò che fa Actor’s Studios. L’intreccio sentimentale porta il giovane Billy verso la figura paterna di Tunstall prima e di Garrett dopo, per affrancarsene violentemente, quasi didascalicamente, verso la fine del film. Inoltre il suo cuore batte palesemente di più per il suo Tom e il suo Charlie invece che per le ragazze. Due amici che una volta morti saranno lo spettro di tutta la sua virilità mancata. E quel flauto (fallico) che Billy ritrova e che stringe a sé, e quella pistola (fallica) che Billy si sfrega in viso quasi per sentire rivivere qualcosa di qualcuno che non c’è più, o semplicemente per elevarla ad unica presenza amica, unica corrispondenza del suo essere ambiguo. Le ragazze, le donne, le femmine ci sono. Ma sono riottose, refrattarie. Baciano, ma non odorano di sesso. A odorare di sesso, attraverso una sessualità complicata e criptata dai gesti, è invece l’iter picaresco dei tre giovani banditi. Vivono insieme, si lavano insieme, litigano, sparano e uccidono tutto insieme. Il cameratismo sessuale di cui sono protagonisti, benchè velato, è un luogo comune nella cinematografia tutta, in particolar modo quella western, in cui le tensioni omofiliali, più che omosessuali, erano lì mascherate, velate, tracciate lievemente, ma sempre ben presenti e palpitanti. La forza del film di Penn, oltre che a regalarci un Paul Newman straordinario che mette i brividi ad ogni sua contorsione fisica e ad ogni suo gesto improvviso, sta anche nella definizione del protagonista. La sua ribellione senza causa, filo diretto con l’antagonismo giovanile degli anni ’50, basti pensare al grande “ribelle senza causa” che fu Jimmy Dean nell’omonimo film di Nick Ray del 1955, è una ribellione tutta americana, nata dalla radice incorrotta della libertà. Se c’è un paese che ha incarnato il mito della libertà, quello è l’America: enormi spazi, possibilità per chiunque, avventura, pericolo, unico grande referente l’incontaminata natura. Non è poi difficile pensare che film come “Vanishing Point” o appunto “Gioventù Bruciata” e questo “Furia Selvaggia”, siano proprio nati qui, a rappresentare la tensione verso una libertà individuale riconoscibile nello spazio, ma frenata e castrata dalle e nelle istituzioni, dal e nel potere economico e dai e nei dogmi moralisti. Ecco che quindi Penn si avvale del filo omoerotico per tessere il panno di canapa con cui vestire il suo Billy Kid. Accosta la ribellione tragica e nobile con la scomoda omosessualità. Io preferisco omofilia. L’omosessualità è una palese dichiarazione d’amore verso lo stesso sesso, con complicazioni sentimentali e sessuali identiche al rapporto etero. Con l’omofilia e l’omoerotismo possiamo invece definire quelle tensioni tenere e impulsive allo stesso tempo verso un nostro simile, che non necessariamente sfociano nell’amore o nel rapporto sessuale completo. L’anelare di Billy al suo Tom, non è vera omosessualità, ma un’esaltazione della loro amicizia virile frenata dai loro stessi sessi, ma da questi spinta sempre verso limiti e confini pericolosi. É il grande mistero dell’amicizia virile, quella maschile che rende un uomo amico, fratello e amante di un altro uomo senza per questo necessitare di un rapporto sessuale completo, ma corredato almeno di quelle attenzioni che vengono dal cuore come dalla tensione sessuale. Così il regista, parallelizzando l’omosessualità con la ribellione di Billy, dal tragico e ineluttabile destino, disturba la società a lui contemporanea con la forza della rivisitazione mitica della frontiera. L’omofilia non è accettata oggi, figuriamoci nei ’50. Questo permette al film di perturbare lo spettatore e il censore stesso, che non sa che tagli apportare al film perché nulla di esplicito si vede, ma tutto si sente ed è palpitante, rabbioso. Come rabbiosa è l’anima inquieta di Paul Newman, straordinario Billy the Kid (che purtroppo non può competere con il Kris Kristofferson di Peckinpah), che rappresenta la rabbia civile ed esistenziale della generazione di quell’epoca che si apriva ai ’60, al Vietnam, alla ribellione, agli hippy. Nel West non c’è più posto per gli uomini tutti di un pezzo, anche se Budd Botticher continuava a sostenerlo con John Sturges, e non gli daremo di certo torto, ma bensì la frontiera si apre alle anime tormentate, amletiche, autodistruttive, che rinfacciano ad un paese e ad una società il proprio dissenso, il proprio disagio. Loro, novelli dissociati del Novecento, sono mitologicamente i vagabondi picaresci della frontiera che fu, sono i nuovi cangaceiros di un Sertão esportato, di un deserto di certezze da cui nascono incertezze, dubbi e angoscie tali da creare convulsioni, contorsioni e isterie autodistruttive. Quelle che appunto incarna il bel Billy di Paul Newman.
Ma se il film di Arthur Penn semina una serie di provocazioni esistenziali, queste sarebbero pressochè nulle senza una regia adeguata che privilegi una modulazione narrativa improvvisa, depistante e radicale. Ecco che il favoloso bianco e nero che crea la dimensione semi-onirica del film accoglie l’arrivo dal deserto, dal nulla, dal non-passato, di Billy senza cavallo, il suo arruolamento nelle fila del buon Tunstall, che subito gli confessa la sua affezzione per lui, e che subitamente muore e viene vendicato. Con la stessa alienante rapidità ci troviamo a Madero (forse la vera Fort Sumner di cui poi sarà Sam Peckinpah il cantore), dove vivono Pat Garrett e l’amico di sempre Pete Maxwell. E poi le liti, le convulsioni, gli scatti d’ira improvvisi, l’animalità di Billy, lo scontro con Garrett, il carcere, la morte sfocata di Bob Ollinger, gatto rabbioso, e poi quella notte. Nel silenzio, un silenzio disarmente che sa di tragico senza percorrere i luoghi della tragedia, Billy si trova disarmato davanti all’amico-feticcio Pat Garrett che lo uccide. Anche lo spossesso della pistola fa di Billy l’uomo senza più la sua virilità, o meglio ancora l’uomo senza più il suo riferimento sessuale principale che l’aveva guidato e spinto nella sua fuga e nella sua vendetta. Un’iter, quello di Billy, che sa di erotico, di atto sessuale. Un rapporto sessuale con il destino contro il destino. Con la spregiudicatezza e l’irriverenza di chi fa del sesso l’ultimo linguaggio ribelle possibile.

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