Paul Hackett (Griffin Dunne) è un programmatore informatico che una sera, per caso, incontra in un bar una sconosciuta, con la quale inizia a scambiare due chiacchiere. Dopo qualche ora, ormai a notte inoltrata, si troverà a casa sua. Ma una serie di frasi strane pronunciate dalla donna, lo spingeranno a darsi alla fuga e a cercare di tornare a casa il prima possibile: peccato che questa diventerà una impresa praticamente impossibile.
La società è un nucleo di cellule impazzite, e queste cellule ovviamente sono gli esseri umani. La notte è il momento in cui le loro stranezze, le loro nevrosi, le loro ossessioni, possono palesarsi con più chiarezza: la notte può portare in superficie ciò che sono realmente. Durante la sua odissea notturna, il protagonista si scontrerà con una umanità che ha perso la bussola, che vaga alla disperata ricerca di conforto e appiglio. Dalla bella sconosciuta incontrata per caso, depressa e dal passato difficile, alla scultrice sadomaso, alla cameriera esaurita che odia il suo lavoro, al barista ossessionato dai ladri insieme a tutti gli abitanti del quartiere, e via di questo passo, in una girandola che non sembra avere mai fine. Il programmatore, che vuole solo tornare a casa, cerca di razionalizzare, si barcamena in questo manicomio, grande come l’intera città di New York; ma viene inevitabilmente fagocitato, catturato, imprigionato in un mondo dove la follia è regola imperante.
Il film di Scorsese ha il pregio di divertire, mentre racconta questa dura realtà: una straordinaria inventiva accompagna tutto il film, sempre in bilico tra reale e surreale; non possiamo che solidarizzare con il protagonista, divertirci nel vederlo saltare da un guaio all’altro, da una avventura all’altra, escogitare mille stratagemmi per sfuggire ai tentacoli che vogliono catturarlo.
Fuori orario è uno dei miei film preferiti di Scorsese: una cartolina tridimensionale, notturna, coinvolgente e spassosissima, di una umanità irrimediabilmente vittima di se stessa.
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