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La mia vita a Garden State

Regia di Zach Braff vedi scheda film

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La recensione su La mia vita a Garden State

di LorCio
10 stelle

Garden State è un luogo dell’anima, nonostante questa espressione sia quanto meno abusata ed inflazionata. In ogni caso, forse non c’è altro modo per definire il microcosmo di questo film. È il posto in cui è cresciuto il protagonista fino ad una certa età (a sedici anni è stato mandato in collegio) ed è il posto in cui torna, all’età di ventisei anni, per il funerale della madre paraplegica, annegata nella vasca da bagno. Sin dalle prime scene, laconiche e silenziose, immerse in uno straniamento alienante (il bianco che divora la camera da letto di Andrew, il protagonista; il trattamento che gli riservano i clienti del ristorante vietnamita in cui lavora; gli psicofarmaci conservati con allucinante precisione nella vetrinetta del bagno), lasciano intendere il tema fondamentale della storia: l’inadeguatezza di chi non riesce a trovare un proprio posto nel mondo.

 

È un argomento già affrontato dall’autore-attore in quel capolavoro della televisione che è Scrubs, in cui Zach Braff era J.D., l’impacciato, romantico, fantasioso medico del Sacro Cuore: come in quelle otto stagioni, anche Garden State s’impegna ad individuare il lato buffo del dolore, ad ironizzare sull’immenso problema del proprio collocamento esistenziale. È evidente una maturazione nel salto cinematografico di questo attore a suo modo unico e quasi malincomico, che sa inventare soluzioni di regia tutt’altro che scontate e riesce a frullare con estrema delicatezza elementi come l’amicizia, l’amore, la famiglia, l’identità senza mai essere né stucchevole né mieloso né banale.

 

Come in Scrubs, risultano fondamentali i monologhi, che aiutano ad entrare nel piccolo mondo di Andrew (uno per tutti: “Sai quando arrivi a quel punto della tua vita in cui ti rendi conto che la casa in cui sei cresciuto non è più casa tua? Improvvisamente anche se hai un posto dove mettere le tue cose, l'idea di casa non esiste più. Come avere nostalgia di un posto che neanche esiste.

 

Forse una famiglia è proprio questo, un gruppo di persone che hanno nostalgia di un posto immaginario”), ed è proprio la sceneggiatura ad essere un miracolo di leggerezza e malinconia, disillusione e crescita interiore, nostalgia di cose mai vissute (gli amici non pienamente goduti nel periodo dell’adolescenza; i ricordi infantili della madre amorevole) e voglia di essere un’altra cosa (la ricerca della colpa originaria che ha portato Andrew ad allontanarsi dal suo nido; la permanenza catartica nella vasca in cui è morta la madre), che raggiunge almeno tre apici: la scoperta della coppia che abita nell’abisso di una faglia rocciosa; l’abbraccio nella vasca con Natalie Portman (eccellente), un’altra disadattata sentimentale bisognosa di stabilità emotiva; e il confronto finale tra padre (un asciutto Ian Holm) e figlio, che accarezza la felicità come un’ambizione troppo grande per la gente normale. In più, una colonna sonora da urlo che puntella un film che è quasi un capolavoro, perché inaspettato, intimo, personale.

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