Regia di Omar Naim vedi scheda film
Il cinema che si interroga sul potere dell'immagine, e sul rapporto che essa intrattiene con i ricordi e la vita non è nuovo ma rimane un campo d'ispezione in cui ancora nessuno ha delimitato i confini. Le opere che trattano questo argomento, le prime che mi vengono in mente, sono "Fino alla fine del mondo" di Wenders, "Strange Days" della Bygelow (il film più affine con "The final cut" per quanto riguarda il discorso teorico) e "The Truman show" di Weir. In "The final cut" il discorso è elevato ad un livello metacinematografico: il personaggio interpretato da Robin Williams altro non è che un montatore (dà il ritmo a tutto, decide cosa tenere e cosa no), i suoi clienti che gli commissionano i lavori sono i produttori (espongono chiaramente cosa vogliono vedere) e i defunti i registi delle immagini immagazinate nel chip. Un discorso senza dubbio affascinante (anche senza entrare nel campo del metacinema) che si arrichisce di elementi scenografici interessanti, in primis "la ghigliottina" lo strumento che usano per il loro lavoro il cui scopo è quello di eliminare quegli spazi della vita non graditi e che nella struttura di legno ricorda vagamente le ghigliottine di storica memoria (strumento di morte credo oggi abolito dappertutto).Williams è colui che fa un restailing sulle vite altrui per presentare ad un pubblico, dai piaceri decisamente un poco necrofili, un testamento visivo che sostituisce con l'immagine la parola di molti sermoni. Sostituisce senza eliminare l'ipocrisia tipicamente legata al ricordo dei defunti (e si trova lui ad essere a conoscenza dei segreti più intimi e perversi della vita degli altri). Fino a questo punto il film così raccontato sembra decisamente buono, peccato che deragli sui binari a prima vista più facili da percorrere. Al di là della scarsa incisività di alcuni personaggi (a dispetto della decisa bravura come attori): Mira Sorvino entra ed esce dal film senza lasciarvi traccia (eh sì che il suo poteva essere il personaggio più interessante), Jim Caviezel è decisamente impalpabile; dobbiamo sommare anche una regia poco attenta nella scelta sul catalogo delle varibili visive a sua disposizione: la sequenza in split screen nella prima parte del film è a tratti di una bruttezza a dir poco imbarazzante. Ma alla fin fine il punto debole è la storia che sorregge tutto l'apparato psicologico, mal costruita e poco incisiva nel finale quando si chiude piuttosto bruscamente quasi a dire "il film sta finendo quindi finiamola anche qui di raccontare". In definitiva "The final cut" rimane un film decisamente buono nei contenuti ma mal assemblato nella struttura, la cosa interessante è che ciò è l'opposto di quello che capita nella maggior parte dei film in circolazione, e questo è un'altro punto di interesse a favore del film.
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