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Le tre sepolture

Regia di Tommy Lee Jones vedi scheda film

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La recensione su Le tre sepolture

di FilmTv Rivista
8 stelle

Per realizzare il film, Tommy Lee Jones e lo scrittore Guillermo Arriaga si sono fatti finanziare da Luc Besson. A Hollywood Le tre sepolture non interessava. Troppo poco glamour, troppo polemico e paradossalmente troppo western. Adesso che il film è uscito anche ai confini dell’impero (cioè da noi) si teme che in prossimità della Notte degli Oscar venga eclissato dai nominati eccellenti. E che in definitiva non lo veda nessuno. Invece ve lo diciamo forte e chiaro: non perdetelo. E vi diciamo anche che almeno tre dei cinque titoli “nominati”, immaginate voi quali, neppure si avvicinano alla qualità visiva, e persino filosofica, delle Tre sepolture. Questo per ribadire quanto contino i meriti reali in una selezione che è soprattutto mercantile. La storia. Il poliziotto di frontiera Mike Norton (Barry Pepper) accoppa per sbaglio Melquiades Estrada (Julio Cedillo). Un messicano che tira le cuoia in Texas non fa notizia, così lo sceriffo archivia il caso. Il miglior amico di Melquiades, il ranchero Pete (Jones) non ci sta, scopre il colpevole e lo costringe a viaggiare a cavallo verso il Messico per dare degna sepoltura al poveraccio. Certo, ci sono Peckinpah e la testa di Garcia, ci sono John Sayles e il problametico Stella solitaria, ci sono Monte Hellman, Arthur Penn, Martin Ritt e la schiera di cineasti che in qualche modo osarono ripensare al western lontano da Ford e Hawks; o forse, meglio ancora, partendo da loro per poi affrancarsene cammin facendo. C’è tutto questo e c’è il piacere del narrare moderno di Arriaga, qui equilibrato da una storia semplice e da una regia più classica, rispetto per esempio all’inutilmente caotico 21 grammi. Ma ci sono anche Lo straniero di Camus e il lancinante sguardo sull’alienazione di chi è costretto, come il messicano Melquiades e il pied noir Mersault, ad abbandonare la propria homeland. Che è un’Itaca del cuore, un posto dell’anima; infatti i nostri due cowboy si spaccano la schiena per trovarlo, il luogo natìo di Estrada, e rischiano di non riuscirci perché non sono lui, non se lo portano dentro. E qui scatta un curioso parallelo con il secondo film più bello del momento, Munich. Quando l’israeliano e il palestinese si parlano sulle scale, il secondo non dice che ebrei, irlandesi, palestinesi, baschi lottano per una nazione, bensì per essere una nazione. Melquiades era il Messico, e lo era con una intensità che lo squallido Norton non può capire se non attraverso un viaggio, un’educazione, una presa di coscienza.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 7 del 2006

Autore: Mauro Gervasini

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