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Free Zone

Regia di Amos Gitai vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Free Zone

di ed wood
8 stelle

"Free zone" la zona franca del cinema di Gitai. E' il non-luogo in cui albergano, provvisoriamente, tutti i suoi temi e le sue immagini. E' la precaria dimora di inquietudini e conflitti. Raramente nel cinema contemporaneo viene dato così tanto risalto alla tecnica della sovraimpressione: due flashback, uno per Rebecca e uno per Hanna, irrompono nel road-movie per tentare di spiegarci qualcosa sulla vita delle due protagoniste, e le visioni del passato (o meglio, dei vissuti, molteplici e misteriosi) si sovrappongono a quelle di un presente altrettanto ambiguo. L'immagine si fa dunque liquida, confusa, evanescente, inconsistente: luogo onirico dove le identità si perdono e le coordinate spazio-temporali evaporano. Lungi dal costituire una banale metafora della labilità dei confini geografici e culturali in Terra Santa o dell'impossibilità di liberarsi della propria storia come della Storia, la sovraimpressione è invece qui un artificio di grande presa poetica, che risalta dolcemente dal contrasto con un impianto meta-realista di ascendenza kiarostamiana (i lunghi piano-sequenza dall'abitacolo della macchina, la perlustrazione para-documentaristica della realtà quotidiana). E' un cinema che, dietro all'apparente pauperismo, porta con sè una straordinaria ricchezza e sfaccettatura espressiva. Non è ovviamente solo indagine sulla questione mediorientale: c'è molta teoria dello sguardo, c'è un senso profondo suggerito da ogni scelta stilistica; c'è la tentazione della fuga, o quantomeno il desiderio di assopirsi e perdersi in una dimensione oltre la Storia. Ma soprattutto, c'è il confronto complesso fra diverse storie di esilio (volontario o forzato) che coinvolgono americani, europei, arabi, cristiani, ebrei, musulmani, uomini, donne, tutti senza patria e senza pace. C'è il fantasma del nazismo e della Diaspora; l'arroganza della nuova borghesia europea (spagnola in questo caso); la presenza invisibile ma influente del demonio americano; i pregiudizi dei fondamentalisti religiosi. C'è il gioco di riflessi fra i conflitti domestici (la fine di un matrimonio, l'ostilità di una suocera) e quelli politici; c'è la scoperta di insospettate analogie fra i drammi nostri e quelli degli altri. La cristiana statunitense Rebecca, l'ebrea di origine europea Hanna, l'islamica Leila in fondo non sono altro che tre donne problematiche: Rebecca ha mollato il marito Julio perchè la suocera voleva per suo figlio una moglie ebrea (e non per via del tradimento di Julio, il cui racconto, nell'economia del film, ha un significato puramente emotivo, non psicologico-narrativo); Hanna deve farsi dare 30000 dollari per conto di suo marito che vende blindati agli arabi tramite la mediazione del sedicente "Americano"; Leila deve vedersela con un figlio ribelle e piromane. Tutte e tre vittime dei vari mali dell'intolleranza, del fanatismo, dello sfruttamento economico della tragedia bellica: tutte e tre straziate nel profondo dell'animo. Come sempre in Gitai, l'incipit e la chiusa vivono di luce propria, incorniciando il film con balzi di tono, spesso spiazzanti, che inducono lo spettatore a riconsiderare il senso globale della visione. Rebecca piange, sulle note meste della Fiera dell'Est, per 7 minuti di fila nell'eloquente piano-sequenza iniziale; alla fine, la vediamo fuggire alla frontiera, abbandonare le compagne di viaggio, braccata dalle guardie doganali. Non c'è pace per lei, non c'è un luogo che la possa ospitare: in conflitto con la cinica indifferenza occidentale, appassionata di Storia, vorrebbe conoscere a fondo la cultura del Medio Oriente, ma anche la solidarietà con le donne che incontra si limita solo ad un raggae ballato in auto, sporadico momento di distensione prima di consegnarsi ad un destino errabondo. Per chi rimane, per chi non può scappare, come Hanna e Leila, ci potrà essere solo conflitto, senza il miraggio di una soluzione. L'inconsistenza dell'immagine, l'ubiquità del pensiero, la sovrapposizione di momenti e sentimenti cangianti si strutturano in una narrazione dove il passato viene continuamente evocato dai racconti che progressivamente svelano nuove verità e contribuiscono a ridefinire il presente: la rivelazione del personaggio definito come "L'Americano" e della sua incredibile vicenda sintetizza tutte le contraddizioni di una Storia impazzita, che confonde culture, luoghi ed identità. "L'Americano" è l'incarnazione di un Occidente che specula e domina, che controlla e organizza il caos della Free Zone: è l'iperbole di una condizione di continuo inganno, dove il concetto di nazionalità è valido solo come depistaggio. La scena del dialogo con Rebecca, inconsapevole testimone-vittima-complice di questa storia (Storia) perversa, è girata con un carrello da media distanza e solcata da alberi e costruzioni che nascondono saltuariamente i due personaggi: è la verità che gioca a nascondino, il demone della Storia che si maschera e si rivela a suo piacimento, la beffa di una realtà che non è mai quella che sembra. 

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