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Manderlay

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Manderlay

di Aquilant
8 stelle

Prosegue in “Manderlay”, ma con meno birra in corpo, il salvifico viaggio di Grace nel paese di Bengodi trasformato in ricettacolo per reietti, per la serie “Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sull’America ma non avete mai osato chiedere”, generosamente offerto al pubblico da un Lars von Trier deciso a passare in rassegna per l’occasione tutti i colori del nero, ma la cui causticità comincia a mostrare, ahimé, la corda. Un’America decontestualizzata dalla tinta color pece come la pelle dei suoi cittadini di terza mano posti in schiavitù coatta (o forse no?), e sospesa in una dimensionalità temporale adeguatamente enfatizzata dallo sguardo metaforico autoriale, con conseguente effetto teatralizzante reso ancor più evidente rispetto a “Dogville” dalla blandezza di un ritmo che fa della staticità il suo motivo predominante.
Lungi dal creare, come nell’episodio precedente, una crescente tensione in grado di condurre lo spettatore per gradi ad un dissacratorio prefinale e ad uno stravolgente finale partendo dall’arrivo della Grazia (oppure dell’Angelo sterminatore, a seconda dei punti di vista) quale elemento catalizzatore di un processo disgregante capace di far schizzare via il coperchio di un vaso di Pandora ribollente di vizi, abiezioni, passioni e miserie interiori, Lars Von Trier sceglie di introdurre fin dall’incipit il tema dominante dell’ipotetica coesistenza pacifica tra razze e caste diverse, ponendo il dito su una piaga purulenta ed ancora infetta dell’America e non solo, in un ideale proseguimento della sua dolorosa analisi psicoanalitica sul lato oscuro dell’individuo.
Di conseguenza, dopo aver posto prematuramente lo spettatore al cospetto del punto nodale della narrazione, il regista si limita a riempire gran parte dei rimanenti minuti del film con una serie di dialoghi che denotano compiacimenti pedanteschi sotto una suadente patina ci complessità e che in più di una occasione rischiano di apparire, forse a torto, semplicemente come degli espedienti atti a mascherare il logorio di una messinscena che vive unicamente per il colpo di scena finale, ovvero per il ribaltamento di un assioma generalizzato che contempla, fin dalla notte dei tempi, un vero e proprio rapporto di subordinazione coatta tra padrone e schiavo, con conseguente scambio dei ruoli e rifiuto generalizzato dei famosi concetti più volte calpestati di “liberté”, “egalité”, “fraternité”
É qui messa bellamente in risalto la maturità espressiva di Bryce Dallas Howard, dal candido biancore corporeo che quasi per pura antitesi riesce a creare, pur a scapito di una certa lacerazione interiore, un’identità simbiotica col profondo nero invadente del suo interlocutore privilegiato. La coraggiosa interprete non risente affatto l’influsso di un retaggio paterno da cancellare accuratamente e non fa rimpiangere in alcun modo la plurititolata Nicole Kidman ma riesce anzi a portare avanti la baracca tra mille difficoltà plottistiche con masochistica devozione (costante caratteristica delle malcapitate eroine vontrieriane) fino all'epilogo.
Ancora una volta si rende evidente il rigetto naturale della Grazia da parte di un lembo di umanità volontariamente sottoposta ad una sorta di rassicurante coattitudine, sottilmente piegata ai propri fini da una legge di Mam che si rivela essere legge di Wilhelm, laddove Von Trier profonde tutte le sue energie a sostegno della dimostrazione che conduce al logoro corollario per cui “l’America non sarà pronta neppure tra cent’anni ad una eguaglianza coi negri”.
E giova osservare come in virtù di una specie di gioco dialettico degli opposti il regista si sia affannato a disseminare lungo l’intero labirinto narrativo in un’ideale antitesi alla “Grazia”, elementi di “brutalità” (il selvaggio amplesso di Timothy), “calamità” (la tempesta distruttrice), “doppiezza” (la sottrazione del denaro con l’inganno), “violenza” (l’uccisione di Wilma), “impurità” (la masturbazione della stessa Grazia), “ostilità”, e così via, ad ennesima dimostrazione di un concetto che partendo da una sinistra America destrorsa caratterizzata da una tetraggine sempre più marcata si avvia, contro il volere del suo stesso creatore, ad assumere una valenza metaforica ben più ampia, ad abbracciare nel suo contesto tutto un intero mondo che si dibatte tra le spire dell'incertezza in un sempre più crescente smarrimento della sua autoconsapevolezza. Un mondo i cui abitanti sono tutt’altro che propensi a prendere coscienza della loro identità ed a comprendere fino in fondo la reale portata del concetto di eguaglianza tra razze ( e religioni) diverse.
Sebbene il fascino ipnotico che scaturiva da “Dogville” si sia in buona parte stemperato per fare posto ad una malcelata freddezza che traspare in un tessuto contestuale filmico oltremodo violentato dalla consueta e quanto mai inopportuna voce extradiegetica che nell'anticipare le mosse ed i posizionamenti psicologici dei personaggi pervade il tutto creando una sorta di cappa opprimente, un giudizio positivo col beneficio del dubbio è di prammatica in attesa di “Washington”, nella speranza che il tutto non vada poi a finire in burletta come nella malcapitata serie di “Matrix”.

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