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Last Days

Regia di Gus Van Sant vedi scheda film

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La recensione su Last Days

di PompiereFI
8 stelle

Due segnali emersi dalla cronaca recente mi hanno indotto a (ri)pensare a quanto l’Arte Cinematografica preceda e accompagni il nostro vissuto. Da poco avevo terminato una breve disamina scritta di “Elephant”, un’opera che sento sempre viva sottopelle, riferimento irrinunciabile per tutti quegli atti orribili di violenze arcane che ogni tanto emergono da qualche parte del mondo. Ripensavo alla strage del liceo Columbine quando i notiziari sono stati invasi dagli attentati del 22 luglio in Norvegia; non ho potuto fare a meno di rievocare l’elefante che prende sempre più posto, che si accomoda placido estendendo le sue membra flaccide e pesanti, in una specie di chiazza crescente. Orribile.

Mi sono perso dietro ai perché, come umanamente accade in questi casi, non trovando molte risposte. E poi ho ripassato mentalmente la filmografia di Gus Van Sant, soffermandomi per un attimo sull’atto successivo a quello: “Last Days”. Nemmeno un giorno di tempo per rimuginare nei miei spazi di solitudine che Amy Winehouse perde (si toglie?) la vita nella sua casa di Londra. In questi casi c’è chi parla di mistero, di doppie personalità: da una parte la forza incredibile del successo accostata a improvvise fragilità, il carisma rapportato a un senso di straniamento nei confronti del mondo. Tutte constatazioni inconfutabili ma inutili. Qualcuno muore, e non c’è più niente da fare. Rimane il nucleo dell’atto, dell’azione secca e improvvisa che ci spiazza e che sorprenderà sempre le nostre abitudini di pensiero.

“Last Days” prende le mosse dai quattro elementi fondamentali, in cui tutte le cose esistono e consistono, che sembrano suggerire un barlume di vita. Terra. Aria. Acqua. Fuoco. Segnali positivi, con un futuro. Invece, a guardar bene, il terreno dove si svolge l’azione è un pantano, l’aria è umida, l’acqua inquinata, il fuoco pericoloso. Perché bruciare in fretta toglie tutto ciò che rimane dell’esistenza. Il film così condotto è vagamente ispirato agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, cantante dei Nirvana, uno dei gruppi più innovativi del genere grunge. Segue da vicino la vergogna della paura di essere inadeguati, il non saper cosa fare di se stessi.

Blake (il nome inventato nel film, perché Kurt/Jim o qualsiasi altro nome è maledettamente uguale che non serve cristallizzarlo dandogli una connotazione giornalistica) è un fiore appassito in un vaso senz’acqua. La pellicola è un ritratto molto personale di un artista che si nasconde perché è in crisi, cerca di sfuggire alla pressione della carriera artistica e all’abuso di sostanze stupefacenti che l’hanno allontanato da famiglia, amici, collaboratori. Chissà cosa accade, o forse sta per accadere in questa disamina quasi sperimentale, in questo breve viaggio cinematografico che bussa a qualche porta senza avere la forza (o la pretesa) di aprirle tutte.

Qualcuna si schiude e rivela un video intempestivo dei Boyz II Men che cantano “On bended knee”. Poi le idee volano. Si improvvisano canzoni che si ascoltano e altre che si scrivono: potenza della purezza del cinema. La musica non è usata, come al solito, per esaltare le emozioni del pubblico: non è allegra in scene allegre o triste in scene tristi. C’è e basta.

Decadente, grottesco, quasi umoristico nell’aspetto e nella sua goffaggine, Blake è interpretato da un incomparabile Michael Pitt. Nessuna influenza o interferenza per lui e gli altri attori: tutti liberi di recitare come vogliono, agiscono imprevedibili, naturali, come fossero in una specie di box per bambini. Blake scompare in un borbottio di fondo (che è quello di un artista lontano) straordinariamente dirompente; rabbia scemata che non schiuma più attraverso la creazione musicale ma si attorciglia intorno alle caviglie del personaggio, per tirarlo sempre più giù nel vortice di una depressione irreversibile. Osservarlo così, da una certa distanza, fa quasi tenerezza.

Altri rumori di sottofondo accompagnano la visione di “Last Days”: il treno vicino alla villa, qualche auto, le campane di una chiesa, gli orologi a pendolo, il casotto degli attrezzi dove al lavoro è rimasta solo la morte.

Rispetto a “Elephant”, l’impegno precedente del regista, s’instaura un rapporto emotivo minore con le immagini. Qualche schema narrativo che si intreccia, e che costituiva il ventre di quella pellicola, sembra qui davvero forzato e fuori luogo. Tuttavia, tra campi lunghi e piani sequenza meticolosi, abbiamo tutte le informazioni che necessitano per capire ciò che vediamo; non c’è bisogno che la cinepresa si muova costantemente. Anzi. Van Sant ha fatto affidamento su pratiche di lavoro sicure, che conosce bene, costruendo il montaggio in modo da non dirti dove guardare o a cosa prestare attenzione. Senza parole, senza giudizi e lasciando in mostra l’essenza, il suo cinema rappresenta una delle poche valide alternative all’odierno mainstream. Teniamocelo stretto più che possiamo.

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