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Trash - I rifiuti di New York

Regia di Paul Morrissey vedi scheda film

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La recensione su Trash - I rifiuti di New York

di scapigliato
8 stelle

Se il cinema è la mimesi della vita che non cade sotto i nostri sensi, allora questo cinema di Paul Morrissey è la trasfigurazione dell’oggettività del reale in lirismo, dove la soggettività, assente nella tecnica di ripresa naturalistica, si avverte nella presenza scenica dei personaggi, nella loro tenerezza criptata, svelata poi in piccole insignificanze. Ma in “Trash” Morrissey fa un bel passo in avanti come cineasta. Tutto il distacco formale, radicalissimo in “Flesh” (a mio parere il miglior film della trilogia), è in “Trash” ridimensionato da una cura maggiore delle inquadrature, sebbene i bellissimi primi piani che concede agli attori sono il segno di una partecipazione e di un “avvicinamento” al personaggio che svela poi tutto l’affetto del regista per questi disperati. Errore comune, infatti, è credere alla cieca e radicale impersonalità di registi, o a loro tempo scrittori naturalisti e veristi, nelle loro opere. Proprio nel momento in cui un autore prende formalmente le distanze dai suoi personaggi e dalle loro vicende, impersonalizzando lo sguardo critico sul loro mondo, proprio in questa scelta c’è una dichiarazione d’amore senza precedenti. Perché saranno gli attori nei loro dialoghi prosaici, nella loro gestualità istintiva, nei loro silenzi, negli scarti di una regia pseudo-sorniona che invece c’è eccome, saranno proprio loro a caratterizzare e a narrativizzare sé stessi, trasudando tutto il loro universo emozionale, svelando tutto il loro cuore e spogliando irrimediabile tutto il loro spirito. E questo Morrisey lo sa. Credete forse che Verga, dietro il suo distacco formale, non partecipasse in gran segreto alle vicende dei Malavoglia o di quell’altro Gesualdo? Credete che Zola non amasse la sua Thérèse, Camille e il terzo incomodo? Credete che nei morti ubriachi, negli appestati, nei violenti e disperati “rifiuti” di tanti romanzi dell’800 non siano rintracciabili l’amore e l’affetto dei loro autori? Be’, credete male. E questo Morrissey lo sa. Permette, proprio grazie alla sua regia, che si creino gli spazi, scenici come interiori, in cui vedere svelata l’architettura del suo cinema. Un cinema da marciapiede, secco, duro, impietoso nello sguardo quanto dolce nell’iconografare i volti dei suoi attori, Joe Dallesandro su tutti. Li rende immortali, e c’è riuscito.
Con un’idea di cinema di questo tipo, Paul Morrissey si avvicina sempre più alla forma narrativa classica, disarticolandola dall’interno come farà a partire dal suo prossimo film, “Heat”. In “Trash”, invece, è ancora a metà strada tra la radicalità di sguardo e antinarrazione di “Flesh” (il capolavoro, per chi scrive), e la formalità, sempre “altra”, di “Heat”. Ma al Joe, alla Holly e agli altri personaggi di “Trash” rimane, di quelli di “Flesh”, la noia e l’insofferenza di una vita da scaffale. Sono come merce di un supermercato. C’è la puerilità del gesto e dei discorsi, bellissimi come sempre, soprattutto quello dell’incipit con Gerri Miller. In comune coi cugini del film precedente hanno lo status sociale, la nudità, l’obiettivo anti-obiettivo (là i 200 dollari per l’aborto, qui i dollari per la dose) che poi cede il passo ad un obiettivo più americano: smettere di drogarsi, prendere il sussidio, tirare su il bambino della sorella e cambiare vita. Ma questi nuovi relitti di una New York anonima mancano, rispetto ai precedenti, della totale indifferenza dei primi. Qui sia Joe che Holly comprendono la loro situazione. Vogliono cambiarla. Ma tutto è vano. Tra tante scene e sketches odisseici, come in “Flesh”, l’unico passaggio che intenerisce e fa pensare ad un futuro migliore è il tentativo di Joe di scopare la sorella gravida di Holly, la sua compagna. In un gesto apparentemente immorale, sia per fornificare con una donna incinta sia perché è la sorella della compagna, ritroviamo affrescata e appiattita sull’immagine rozza e grezza del suo cinema, tutta la speranza di Morrissey. Amare fisicamente una donna incinta, simbolo di maternità, futuro e speranza è l’atto inconfutabile della volontà di cambiamento e sopravvivenza di Joe. Ma tutto, ripeto, tutto è vano. Il sussidio non arriverà, dopo una grottesca ed esilarante scena con l’assistente sociale feticista, e per i due disaddattati, veri rifiuti, tutto ripiomberà apatico nella noia dell’assenza perpetua. Ultima battuta del film, quella di Holly: “Voglio succhiarti il cazzo”. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la parola fine.
Un film quindi che prosegue, evolvendo, il suo sguardo verso una realtà rifiutata da tutti, media compresi. Una realtà che all’epoca interessava anche il cinema main stream, ma che secondo i componenti della Factory warholiana, era un cinema incapace di fotografare la verità e la poesia compresenti in quelle vite. Mario Zonta parla di “Woodstock” e “Easy Rider”, Michael Goodwin nel ’70 parla sempre del film di Hopper e di “Blow-Up”; “Flash” stesso era la risposta radicale e underground de “Un Uomo da Marciapiede”. Il pregio di Paul Morrissey è quello di aver costruito i suoi film, “Flesh” su tutti, su di un rigore formale ineccepibile, oppositivo al cinema narrativo di Hollywood, ma anche depurato dagli orgasmi solitari del cinema visivo degli autori concettuali (compreso il suo amico Andy Warhol). Questo suo pregio però non va confuso con una deontologia radicale che mancherebbe ai capolavori del cinema americano dei ’70, tra cui “Easy Rider”. Sono due modi diversi di dire la stessa cosa, ed entrambi ci riescono. Certo, una differenza c’è: in “Trash” la condanna di una vita da tossicodipendente è palesata con impietosità, mentre il Billy di Dennis Hopper e il Capitan America di Peter Fonda sembrerebbero invece esaltarla e renderla la via salvifica dalla società dei rifiuti. Sembrerebbe a questo punto che Morrissey sia stato più americano della coppia di motociclisti, bollando e ammonendo un certo stile di vita, seppur venendo egli stesso da un certo cinema di controcultura, in cui le droghe erano le muse ispiratrici. Certo è che il contributo cinemtografico ed etico di Morrissey è prezioso. Né superiore né inferiore a quello del cinema della controcultura di Hopper, Antonioni, Schlesinger e altri. Tutti puntavano il dito, ognuno a modo proprio, sui rifiuti. Quei rifiuti che danno il titolo al secondo capitolo della trilogia morrisseyana, e che sono centrali nel film. Sia iconograficamente che narrativamente: la casa è fatta da rifiuti, e i rifiuti sono i principali referenti della narrazione, sono loro che portano avanti la narrazione anche dialetticamente. Ma sono centrali anche simbolicamente. Joe e Holly sono rifiuti. Lo sono tutti, compresa la ricca borghese Andrea Feldman che è protagonista di una verbosa scena concettualmente importante che fa il paio con quella del vecchio artista in “Flesh”, entrambe due mise-en-abyme del film stesso. Lo sono anche la giovane coppia lussurriosa ma castrata, l’assistente sociale, il ragazzino del cinema. Tutti sono rifiuti perché anche loro sono il corredo degradato di una città fredda e impersonale. Non c’è differenza tra Holly e i rifiuti che ha in casa, perché anche questi parlano, e quante ne dicono. Ci parlano di chi gli abita, ci dicono del loro futuro, delle loro illusioni. Per strada fa freddo, non c’è rimedio. Tutto è sbattuto su un marciapiede come un sacchetto di immondizia. Cos’è un rifiuto? È qualcosa che è stato e che ora non è più. O meglio, di ciò che è stato resta solo la parte inutile, consumata. Ecco il Joe di Joe Dallesandro, sempre più bravo, abbruttito (mica troppo...), tossicomane, disilluso peggio del Little Joe di “Flesh” dove preservava un’innocenza adolescenziale disarmante. Ecco il tossico Joe che è la parte inutile di ciò che era. Simbolicamente non gli tira più l’uccello, non può più scopare, neanche più gli interessa. E se il sesso, vista la nudità imperante, resta comunque uno dei principali referenti di Morrisey come regista e di Dallesandro come attore, l’impotenza cronica del Joe di “Trash” è anche la distorsione di un percorso artistico e creativo. Con echi esistenziali questa impotenza, che riflette quella creativa del cinema di allora, impotente secondo la Factory di registrare la verità delle strade, cosa che fa appunto Morrissey, è anche l’impotenza del rifiuto, di Joe e di Holly impotenti di migliorarsi. La redenzione per Morrissey è lì, dietro l’angolo, ma sia Joe che Holly sono troppo stanchi, demotivati, impotenti, strafatti e malati per voltare quell’angolo. Ecco che il sesso, qui però iconografato solo dalla nudità floscia di Joe Dallesandro e narrativizzato tra l’altro solo da tentativi bislacchi e inconcludenti di stupro e violenza, torna ad essere la voce amplificata del disagio giovanile, che nl sesso ripone tutte le speranze, anche inconsciamente, si sa. Però lo fa. Tutto ruota intorno al sesso. Sono gli istinti sessuali, repressi o liberati, che fanno girare il mondo e ne determinano gioie o dolori. C’è poco da fare. Ed è così anche per il rifiuto Joe, che è rifiuto tra i rifiuti. Privo di sentimenti, Joe era, adesso non è. La sua vita da tossico l’ha svuotato di tutto, pure della virilità, seppur lasciandogli addosso i segni della bellezza, quasi come una condanna. Questa vita l’ha svuotato, prosciugato, rinsecchitto nel cuore e nell’animo, e questa sterilità si riflette nella narrazione con il suo trascinarsi senza senso, come se fosse lui stesso descritto dalle poesie di Guinsberg, citato più volte nel film. Joe è ormai un rifiuto. Il degrado del mondo però sembra non centrare troppo con questa riduzione a rifiuto. Piuttosto Morrissey sembra parlarci del Male del secolo, il consumismo, che ha costretto l’uomo nella cultura dello spreco. L’uomo è merce. E come tutta la merce si degrada, finisce per diventare spazzatura. Ma il passo concettuale, forte e significativo di “Trash” è che i suo personaggi non finiscono per diventare rifiuti, ma per esserlo. Si amalgamano con essi, si confondo con essi, si fondono con questi rifiuti che sembravano essere solo la scenografia di una topaia. E di segno opposto, ma ugualmente immondizzabile, è la scena centrale del film: Joe entra in una casa borghese per rubare, ma è dialetticamente dominato dalla donna di casa e da suo marito. Mentre la coppia, piano piano, sullo sfondo della loro ambiguità, sviluppa una lite accesa, Joe è nudo, cristologicamente deposto sul divano-letto della coppia isterica, senza sensi, in preda alla droga, mentre intorno a lui si consuma “l’impossibilià borghese”, quella capitalista e consumista. Si celebra la sconfitta del sistema americano incapace di vedere i rifiuti che ha prodotto, anche se belli e sensuali. L’America ha poi gettato fuori di casa il tossico Joe, nudo e coi vestiti sporchi.

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