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Pianosequenza

Regia di Louis Nero vedi scheda film

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La recensione su Pianosequenza

di OGM
6 stelle

Nella notte i fili si intrecciano. Nella notte i fili si dipanano. Lo sguardo vaga, e li segue uno ad uno. Non li molla mai, nemmeno per un attimo. Non smette di spiarli, di pedinarli, anche quando la luce è troppo poca, tanto che non ci si vede. Louis Nero non spegne l’obiettivo, non posa la macchina da presa, per più di due ore continua a girare: dentro ai locali, nelle case,  lungo i marciapiedi, a bordo dei veicoli. Il suo piano sequenza non si cura di nulla, perché la sua unica missione è raccontare senza sosta, producendo un flusso ininterrotto di parole e immagini, testimonianze dirette e contorte allusioni, cronache del presente e rievocazioni della memoria. L’istante passa, pensando già all’istante che verrà subito dopo. L’elemento primario, in questo genere di narrazioni, è dunque per forza di cose, il rimando: il nonsenso che si lascia sorprendere così com’è, rinviando la spiegazione, o la riflessione che si fa cogliere nella propria appartata intimità, quando è da sola, distante dalla realtà che l’ha generata. Nel paesaggio ripreso al volo entrano tanti intrusi di passaggio, che stonano, che non c’entrano nulla, che rovinano l’armonia. Così accade anche in questo film, che ritrae l’andirivieni degli incontri umani, delle connessioni logiche, delle coincidenze casuali accettando di buon grado ogni forma di incoerenza, di digressione immotivata, di citazione apparentemente fuori posto. È in questo disordine che la realtà assomiglia al sogno: contiene lo stesso tipo di bruttezza, quella derivante da un’atroce inspiegabilità  travestita da banalità. Un finto “storpio” filosofeggia a vanvera mentre effettua consegne di cibo a domicilio. Un finto coniglio recapita messaggi sbagliati a destinatari che fraintendono. Una finta maga soffre vere pene d’amore. Il buio accoglie a braccia aperte l’ambiguità che il giorno non ammette. Nel gioco dei fari, dei lampioni, degli abat-jour e dei neon, tutte le figure assumono tratti mostruosi, tanto da potersi concedere il lusso di qualsiasi stranezza, maligna o caritatevole che sia.  Louis Nero ama indugiare sul ritmo indisciplinato di questi sinistri ricami concettuali, che forse associa mentalmente alle creature selvagge dell’oscurità, che pensano, amano, mangiano, muoiono, desiderano e non ottengono, rubano ma non sono felici. Il loro mondo è fitto di mistero, però è inquieto e fuori fuoco: si ribella alla chiarezza, ma lo fa, si direbbe, con poca convinzione. Forse questa è una debolezza insita nella sua natura. O forse, invece, è un piccolo fallimento dell’arte che cerca di imbrigliarne il significato in un ripetuto abbozzo di poesia. In un caso o nell’altro, questo film non si lascia mettere in cornice: si ostina ad uscire dai margini, il più delle volte, purtroppo, utilizzando il mezzo della prolissità. È il marchio stilistico di Louis Nero, che così è solito esprimere il dramma: come un’incertezza che si trascina, zoppicante, in mezzo alla desolazione, al silenzio, all’indifferenza di un cosmo che si astiene dal legiferare, come dal giudicare. Chi crede che questa sia la verità sulla nostra condizione, cercherà di renderla evidente a tutti noi: un modo praticabile – anche se, magari, non quello migliore – è costringerci ad assistere, a lungo, a ciò si presenta pacificamente, in una veste calma e inoffensiva, ma che non riusciremo mai capire. Di fonte a tanta insistenza, potremmo finire per arrenderci. Oppure decidere che il tentativo non ci piace, e che chi ha parlato, ha parlato invano. 

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