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Falstaff

Regia di Orson Welles vedi scheda film

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La recensione su Falstaff

di spopola
10 stelle

Davvero pregevolissima la lettura che Welles ci regala e che nonostante i risicati fondi a sua disposizione riesce bene a mantenere attiva la grandiosità dei versi di un testo che sembra scritto ai giorni nostri. Il regista disegna a tutto tondo la corposa figura del protagonista segnato da una malinconia senile davvero di struggente rilevanza

scena

Falstaff (1966): scena

Falstaff… ovvero il teatro della vita: un film magnifico che fra i suoi tanti pregi ha anche la scena memorabile (che da sola basterebbe a definire l’opera un capolavoro assoluto della settima arte) di una battaglia girata dal regista sotto una pioggia torrenziale e su un terreno in cui il fango impediva ogni movimento, ma talmente potente e necessaria per l’economia dell’opera, da diventare a pieno titolo la sintesi perfetta della concezione wellesiana non solo del cinema, ma  dell’arte stessa. Qui insomma il sapiente impiego di una cinepresa che non ha paura di sporcarsi le mani,  arriva a toccare i vertici sublimi della poesia  nonostante la truculenta consistenza dell’insieme. Siamo dunque di fronte a valori espressivi di eccezionale rilevanza che si legano organicamente con il prima e il dopo della vicenda caricandola di nuovi e inediti significati.

Orson Welles, Jeanne Moreau

Falstaff (1966): Orson Welles, Jeanne Moreau

.

Come Buñuel, Chaplin e pochi altri grandi registi della sua generazione, Welles riesce sempre a mettere in scena la sua visione del mondo utilizzando pochi nuclei tematici e narrativi dentro ai quali innesta tutte le sue folgoranti idee con uno sguardo (quello delle sue cineprese) davvero inusuale e personalissimo. Una peculiarità che connotava già in positivo, la sua opera ufficiale d’esordio, l’ormai classico Citizen Kane (per noi in Italia, Quarto potere) che non è stato però il suo primo approccio con la cosiddetta “settima arte” in quanto già prima si era fatto le ossa facendo molta gavetta preparatoria. Si potrebbe dunque partire ancora da più lontano per definire il suo cinema, arrivando addirittura al suo splendido soggetto poi utilizzato da Chaplin per realizzare la sua opera più lucida e “cattiva” (mi riferisco ovviamente al suo meraviglioso Monsieur Verdoux) poiché già lì si avvertiva la nitida presenza di un talento fuori dal comune e di un’idea di cinema molto personale.

Jeanne Moreau, Margaret Rutherford

Falstaff (1966): Jeanne Moreau, Margaret Rutherford

 

Nelle opere che precedono il Falstaff (e in particolare in Macbeth e Otello le altre due e pellicole shakespeariane da lui girate) le problematiche relativa al “potere” e alla sua forza alienante (quasi urticante) su chi pervicacemente lo persegue ad ogni costo, erano sicuramente esposte in maniera più diretta e brutale: qui sembrano invece rimanere un po’ più sullo sfondo ma solo perché vengono trattate con una forma  più amara e melanconica o forse anche perché la figura di Falstaff (parlo soprattutto della  valenza “tragica” di un personaggio molto sfaccettato) era a lui particolarmente congeniale e quasi ci si riconosceva dentro: “Più studiavo la parte – dichiarò a suo tempo - meno mi sembrava allegra. Questo problema mi ha preoccupato per tutto il tempo delle riprese... Non mi piacciono molto le scene in cui viene privilegiato il suo lato più comico e divertente perché schematizzano troppo la sua figura. Mi sembra infatti che Falstaff sia più un uomo di spirito che un pagliaccio... E’ insomma il personaggio in cui credo di più. A me sembra infatti che sia l'uomo più buono di tutto il dramma e che qui rappresenti soprattutto la bontà e la purezza. Le sue colpe (se tali si possano chiamare) sono colpe da poco, e lui se ne fa beffe. È buono come il pane, genuino come il vino: spinto poco a poco verso il fondo, verrà poi riportato a galla dalla vita. Per questo ho trascurato un po' il lato comico della sua figura ed ho cercato di mettere in evidenza le sue altre virtù a me più congeniali e corrispondenti.

Keith Baxter

Falstaff (1966): Keith Baxter

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Secondo Claudio Valentinetti (uno dei massi conoscitori/divulgatori dell’opera del regista) questo Falstaff rappresenta dunque un ulteriore, importantissimo tassello di quella “drammatizzazione” progressiva del discorso sul potere che (per inciso) si compenetra perfettamente con la visione shakespeariana alla quale Welles  si attiene rigorosamente: estrae battute da molte delle sue opere più famose e gioca sullo schermo una vera e propria partita a tre, con Falstaff (non più solo un “buffone”) terzo incomodo fra Enrico IV e Enrico V. Infatti, se da una parte c’è la reggia di Enrico IV (dimora

sepolcrale di un re circondato da infidi esecutori di un rituale codificato e un po’ stantio che gli fanno sente continuamente la stretta della morte), dall’altra (a fare da contrappeso e  a preannunciare il “dopo” delle vicende), c’è la taverna, teatro di colossali sbornie e delle impudiche smargiassate di una figura emblematica come quella del protagonista eponimo..Due ambienti così diversi e contrapposti che, nel loro continuo alternarsi. diventano i centri vitali della rappresentazione che  compendiano e dilatano i tanti significati che l’opera contiene e ben esplicita.

John Gielgud, Marina Vlady

Falstaff (1966): John Gielgud, Marina Vlady

 

In questo film (Campanadas de medianoces in originale) che sullo sfondo ci mostra anche la fine di un mondo, quello della cosiddetta “Merry England”,  c’è insomma la costante “dichiarata” intenzione di rendere palese la dialettica  del “potere assoluto” utilizzando solo dialoghi così genialmente ripresi e “ricostruiti” in chiave strettamente shakespeariana dai i versi eterni del sommo Poedta.

Si può dunque dire che il Falstaff di Welles è il portatore di valori molto quotidiani e terreni e il possessore di una saggezza istintiva (e amplificata dalla vita) che alberga soprattutto nella pancia e che rifiuta, in nome di una sceltanemmeno tanto ponderata, ogni sovrastruttura, compreso il codice d’onore imposto dalla realtà sociale del periodo: beffardo, bonario, giullaresco, gaudente e  smargiassatamente fantasioso,  esprime con vigore una concezione di vita  spontanea e smisurata molto carnale a cui fa da contraltare la figura di un vecchio re come Enrico IV che cerca di gestire il potere  con la magnanimità del sovrano illuminato anche se quel trono su cui è ancora seduto,  era stato usurpato (e mantenuto attivo) ricorrendo all’inganno e alla violenza.

Si potrebbe dire allora che Falstaff e il suo re sono le due facce della stessa medaglia (il dualismo inconciliabile dell’esistenza umana insomma). Seppure a diverso titolo Infatti sono entrambi i “padri” (anzi, i maestri) che si contendono l’affetto del giovane principe Henry (colui che diventerà poi  Enrico V): chi (Falstaff) con la volgarità della taverna e dei suoi eccessi e chi invece (Enrico IV) con i miraggi  e le lusinghe del trono in quella  severa reggia ingessata dai  protocolli millenari del potere.

Ma come ben sappiamo,  la sintesi (o anche la semplice convivenza) fra queste due istanze,  a lungo andare diventa  insostenibile: a un certo punto della vita si deve decidere da che parte stare e questo lo capisce bene anche il giovane rampollo chiamato a scegliere fra libertà e dovere, gioco ludico e serietà istituzionale. Decidere insomma, che cosa si intende fare della propria esistenza.., e la sua opzione – determinata dall’ambizione e dalla sete di potere - non potrà essere che quella di rimanere dalla parte della Storia e del “dovere” lasciando perdere tutto il resto e rinnegando così di conseguenza, anche i suoi impulsi più genuini e naturali che lo spingerebbero in tutt’altra direzione, anche se questo lo porterà a dover rinunciare pure all’appagante amicizia con il con il “buffone”, il complice sodale di tante sue trasgressioni giovanili. E’ proprio questo il  terribile prezzo che il principe deve pagare in nome del “potere”. Che è sempre molto contaminante.

Si consumerà così un vero e proprio tradimento che a Falstaff spezzerà il cuore e influirà pesantemente sul resto della sua vita: l’uomo, già piegato dall’inconfessata malattia della vecchiaia e dal suo conseguente  disfacimento fisico,non resiste all’abbandono e alla mancanza di riconoscenza del giovane principino a cui voleva davvero bene e finirà per questo, per morire di malinconia e solitudine.

scena

Falstaff (1966): scena

 

Il punto culminante del film, il suo acme drammatico, viene raggiunto dal regista nella scena in cui il principe diventato re, rinnega definitivamente il suo vecchio compagno di baldorie e dopo averlo ripudiato, gli ordina di allontanarsi (di sparire insomma definitivamente dalla sua vita).

Nello sguardo di Falstaff, in uno dei piani ravvicinati più straordinari e toccanti  dell’intera storia del cinema, si scorge (grazie alla bravura di Welles anche come attore) non soltanto il dolore e il disprezzo (che sono i due sentimenti predominanti)i ma anche tutta una serie di emozioni contrastanti  come il rammarico e la frustrazione mischiate a piccole tracce di quell’ironia garbata che caratterizza da sempre questo personaggio, qui “sporcata” da  un velato (ma non tanto) sentimento di riprovazione fatalista, come se fosse stato da sempre intimamente consapevole che prima o poi questa sconfitta mista a delusione sarebbe arrivata e avrebbe finito per sconvolgere l’equilibrio della sua  fragile esistenza.

Welles insomma sembra voler dirci che in un mondo fatto di apparenze e retto da regole troppo costrittive, anche il diventare re (un potente insomma) implica la perdita della dimensione più umana dell’uomo e che questa non è mai una bella cosa. Al contrario invece il buffone  Falstaff mantiene sempre il passo e rimane fino in fondo fedele a se stesso e ai suoi dettami di vita, pronto in nome di questa suo coerenza in nome della quale è disposto è disponibile a pagare anche il fio. Rivela quindi una statura superiore che si richiama a valori diversi ma indiscutibilmente molto più importanti che lo spingono più in prossimità del tragico che a quello del giullare..

Orson Welles

Falstaff (1966): Orson Welles

 

Ci sono ovviamente altre possibili chiavi di lettura di questa  straordinaria opera così stratificata.(ambigua, incontenibile, ariosa, corposa e piena di stimoli  come la realtà e la vita).

Gioca a favore di questa tesi l’analisi della composizione stilistica della pellicola  che non può che tenere conto dei particolari distribuiti a iosa  all’interno  di ogni singola immagine filmica. Nell’opera di Welles insomma il barocchismo, l’enfasi espressionistica, i toni iperbolici del suo procedere per eccesso che qui si amplifica uleriormente, è una costante  comunque funzionale, per l’interpretazione dei messaggi che intende di volta in volta veicolare.

Tutto questo è presente anche qui,  ma con una importante variazione. Qui infatti è la materia primaria che aiuta bene a definire  le complessità strutturali del protagonista: non è più (o non solo) una scelta di gusto dunque, ma  una personale vocazione a lavorare sempre un po’ sopra le righe. Un adeguamento importante del linguaggio particolarmente efficace per disegnare a tutto tondo e con tutte le necessarie sfumature, questa corposa figura caricata e ridondante ma anche piena di una specie di malinconia nostalgicamente senile (resa tangibile dalla prova maiuscola di un Welles in stato di grazia anche come  attore che qui più che interpretare il personaggio, lo vive come se fosse la rappresentazione di se stesso).

scena

Falstaff (1966): scena

 

A questo punto (e per concludere il discorso) posso solo sottolineare ancora una volta quanto Welles sia stato coerente con se stesso e col proprio egocentrismo comunque generoso. Qui infatti si è lasciato alle spalle ogni possibile deviazione verso il calligrafismo o il virtuosismo tecnico fine a se stesso e ci ha consegnato (come regista e come attore) un Falstaff  gigantesco e giganteggiante  davvero inedito per più di una ragione.

Davvero pregevolissima la sua lettura moderna e – come ho già anticipato prima . quasi autobiografica che mette ben in risalto anche la  contemporaneità di Shakespeare e del suo teatro, tanto che potremmo anche affermare che pure lui è figlio del nostro tempo.

Perche questo riferimento all’autobiografia? potreste obbiettare voi. Mi spiego subito: perche anche Welles come Falstaff è sempre stato in costante lotta contro i mulini a vento avendo dovuto combattere per sopravvivere e  imporre la sua arte, un mondo (quello dell’industria cinematografica dominata dai miti del successo e del denaro) che lo ha sempre boicottato. Nonostante questo e le tante “marchette” che ha dovuto fare come attore, è spesso riuscito a portare a termine, pur fra mille difficoltà, alcuni dei progetti che gli stavano particolarmente a cuore ( questa volta grazie a dei finanziamenti svizzeri e spagnoli che gli hanno finalmente permesso di rendere concreto questo suo antico sogno rimasto a lungo chiuso in un cassetto.    

Orson Welles

Falstaff (1966): Orson Welles

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

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