Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
Sinceramente, pur apprezzando la sensibilità registica di Ray in alcune sequenze, specialmente quelle con poche parole e improvvisi primi piani sui volti eloquenti del piccolo Apu e di sua madre, devo ammettere che lo stile di questo blasonato maestro indiano mi è apparso meno coinvolgente di quanto mi aspettassi. Ray è stato un cineasta eclettico, versatile. Il suo sguardo non era rigoroso come quello di un Ozu, ma articolato. Influenzato certamente dal neorealismo italiano, forse però più dal patetismo accorato di De Sica che alla "realtà colta nel suo farsi" di Rossellini, dal quale semmai ha ereditato l'aspetto meno interessante, ossia il didascalismo. E se nel "Lamento Sul Sentiero", i pletorici passaggi narrativi che costituiscono la forma tipica della "saga familiare" (una saga, quella di Apu, assai intimista rispetto alle convenzioni) o del racconto di formazione, riescono ad alternarsi con una certa naturalezza agli slanci poetici, nel successivo "Aparajito" prevale invece la ripetitività di un canovaccio risaputo: il conflitto intergenerazionale. Resta comunque riuscito complessivamente il modo in cui Ray, specialmente nel "Lamento Sul Sentiero", adotta le tecniche neorealiste dell'ellisse e della "sequenza aperta" per rappresentare i momenti più drammatici. Coerentemente con un'estetica e una morale anti-spettacolare (contro le commedie, i melodrammoni e i musical fastosi che dominavano la produzione di Bombay), Ray mette in evidenza le miserie del proprio Paese, senza per questo rinunciare alla qualità evocativa del folklore e delle tradizioni autoctone, un po' come stavano facendo nello stesso periodo Dos Santos per il Cinema Novo carioca e tanti altri ferventi sostenitori del "terzo cinema".
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