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Yakuza

Regia di Sydney Pollack vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Yakuza

di callme Snake
10 stelle

Stiamo per affrontare un viaggio che non ci lascerà indenni: una didascalia ci informa sull'origine del termine yakuza, composto dalle cifre 3, 9 e 8, la cui somma dà 20, numero sfortunato nella cultura giapponese. Dopo una sequenza iniziale che mostra l'importanza della ritualità nei rapporti tra yakuza e gli splendidi titoli di testa (una composizione di pelli tatuate, sfondi noir, dissolvenze accompagnate dalla colonna sonora di Dave Grusin), ci spostiamo in America dove un uomo, Tanner (Keith), chiede aiuto a Harry Kilmer (Mitchum), il quale ha un debito nei suoi confronti. Tanner racconta a Kilmer che gli uomini d'affari (degli yakuza comandati da Tono, l'Eiji Okada di Hiroshima Mon Amour) con cui stava intrattenendo un commercio d'armi gli hanno rapito la figlia per estorcegli del denaro. Kilmer si trova così a sua volta in dovere di chiedere aiuto a Tanaka Ken (Ken Takakura), un ex-yakuza fratello della donna che ama, per convincere Tono a rilasciare la ragazza. Tra i due uomini non corre buon sangue: durante la guerra Ken era stato dato per morto e, una volta tornato a casa, aveva scoperto che la sorella (o presunta tale...) conviveva con l'americano Kilmer, il quale l'aveva salvata assieme alla figlia Hanako, anche grazie al denaro di Tanner. Ken si trova ora a dover riallacciare i contatti con il mondo di cui si era liberato, per sdebitarsi con Kilmer...ma la versione che Tanner ha dato dei fatti non corrisponde a verità e la catena di responsabilità viene pericolosamente recisa...Yakuza colpisce per le sue qualità filmiche tanto quanto i protagonisti colpiscono per le qualità etiche, e viceversa: da un lato abbiamo una narrazione perfetta, di un'eleganza indicibile ed allo stesso tempo di terribile violenza, quasi cristallizata in un formalismo che lo avvicina alla cultura che rappresenta (in questo senso Pollack e Mitchum sono l'uno l'alter-ego dell'altro, americani in Giappone, anzi, nel Giappone: una volta tanto non c'è rottura e spaesamento ma sintonia e rispetto reciproco); dall'altro una storia, dei personaggi, dei volti che fin da subito spingono verso una catarsi totale e ti catturano istintivamente nello spirito del film e della tragedia. Inutile sottolineare che quando questo accade (e non accade così spesso), ovvero quando la perfezione formale si presta totalmente ad una narrazione a sua volta al servizio dei personaggi e dell'emozione, il risultato è indimenticabile. Pochi film riescono a commuovere senza enfatizzare alcunché, evitando lo stereotipo o la caricatura: Yakuza ci riesce alla perfezione. Bastano le azioni dei personaggi, la loro coerenza, a metterne in risalto la statura morale; basta la musica, che spesso si sovrappone e offusca le parole, ad evocare la malinconia per un amore (anzi, tre) mai del tutto consumato; basta l'incedere lento e stanco di Mitchum per le strade di Tokyo a mostrarne la solitudine. Alla fotografia spetta il compito di evidenziare il calore e l'umanità dei protagonisti in rapporto alla freddezza di un mondo in cui contano solo gli affari. Ognuno è legato a doppio filo con la persona di cui è responsabile: chi paga per le proprie mancanze sono le persone amate. L'equilibrio fondato sulla fedeltà e sull'onore non ammette tradimenti: la mancanza di una persona può causare una reazione a catenza devastante. Siamo in pieni anni '70, in piena rivisitazione (Il Lungo Addio, a puro titolo d'esempio), spesso demistificazione (Pat Garret e Billy Kid), a volte ricreazione del mito (Il Padrino). Yakuza prende una strada tutta sua, cambia continente e diventa uno di quei film "come non se ne fanno più", ovvero una pellicola che non ha bisogno di alcuna giustificazione, o referente, o macchinazione intellettuale: semplicemente vive, emoziona, sconvolge, innova. Ha tutta l'intensità dolente di un melodramma, di Casablanca o Lettera da Una Sconosciuta, il senso dell'ineluttabilità del noir (e di molte sceneggiature di Paul Schrader, il cui apporto è fondamentale e perfettamente riconoscibile), la violenza degli yakuza-eiga di Suzuki o Fukasaku, o dei western di Peckinpah...ma non ha debiti, è come un samurai che percorre la sua strada senza mancare mai ai suoi doveri (e se a Yakuza è stato amputato qualche "mignolo" è un torto che andrebbe riparato: mi riferisco alla durata originale di oltre due ore ridotta in Europa a 107 minuti). Per certi versi paragonabile al vicino  Distretto 13 (in un mondo allo sbando rimane solo il senso del dovere e i valori dei singoli individui, la somiglianza tra persone apparentemente distanti che si rispettano e si ammirano vicendevolmente, lo spirito d'abnegazione per un'ideale dettato dalla propria interiorità), Yakuza è forse il miglior film di Sydney Pollack, uno dei migliori degli anni '70 (ragazzi, che decennio! numerarne i capolavori sarebbe un'impresa...) e, forse, uno di quei testi che verranno rivalutati col tempo, magari a spese di qualche altro "capolavoro" più blasonato ma senz'anima. Io preferisco farmi avvolgere dal Giappone di Pollack, affascinante e misterioso, e viverlo fino in fondo.

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