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La vendetta dei 47 ronin

Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film

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La recensione su La vendetta dei 47 ronin

di sasso67
10 stelle

La diligenza che corre lungo la prateria, inseguita dagli indiani, è una delle sequenze più famose della storia del cinema e si trova in "Ombre rosse" di John Ford. Essa è l'apice e la sorgente di tanto cinema americano, tutto basato su scene di pura "azione". L'opposto di questo modo d'intendere il cinema è rappresentato da Mizoguchi, differentemente dal suo connazionale Kurosawa, grandissimo ammiratore di Ford. Basta confrontare "La vendetta dei 47 ronin" con "I sette samurai", per rendersi conto delle immense diversità tra le due filosofie cinematografiche. Il cinema di Mizoguchi si fa, specialmente in "La vendetta dei 47 ronin", cerimonia: il rifiuto per le scene d'azione o di combattimento, ma anche per le scene ad effetto (non sono mai mostrati neppure i numerosi seppuku che hanno luogo durante tutto lo svolgimento del film), a vantaggio delle sequenze nelle quali i personaggi discutono della necessità o meno di determinati comportamenti, trasporta il cinema di Mizoguchi sul piano, appunto, della cerimonia, che non significa certo celebrazione od esaltazione della filosofia che sta alla base dell'agire dei protagonisti. Anzi, quello di Mizoguchi è un sottile modo di criticare la rigida applicazione del "bushido", il codice del samurai, che sacrifica al senso del dovere verso il daimyo (il signore al cui servizio operano i samurai) la vita, l'affetto, gli amori dei personaggi che vi si vanno a scontrare. Va tenuto conto, peraltro, del fatto che le due parti in cui il film di Mizoguchi è suddiviso furono girate ed uscirono nei cinema nipponici proprio a ridosso dell'aggressione di Pearl Harbor e quindi del fragoroso ingresso del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale: pertanto Mizoguchi dovette cantare e suonare la musica che gli era permesso in quei tempi bui. Ed infatti il film piacque molto alle autorità giapponesi - proprio per questa presunta esaltazione del senso del dovere manifestato dai samurai - ma poco agli spettatori (a causa della mancanza assoluta d'azione). E tuttavia, l'adesione del metodo cinematografico mizoguchiano (sequenze lunghe, piani-sequenza, movimenti di macchina, profondità di campo) all'essenza della materia narrata, ai sentimenti dei personaggi, fanno di "La vendetta dei 47 ronin" un grande, fluviale, capolavoro. Dove niente, o molto poco, è come sembra, perché dietro le sembianze di un giovane samurai può nascondersi una ragazza che vuole stare vicino fino all'ultimo al promesso sposo, perché dietro al comportamento dissoluto di un anziano guerriero può nascondersi un'astuta strategia tesa alla vendetta del suo signore, perché l'aggressore può essere il "buono" e l'aggredito il "cattivo", perché dietro al gesto di una moglie che abbandona il marito nel momento in cui questo decide di compiere il proprio dovere può nascondersi uno smisurato gesto d'amore e sacrificio (Dario Tomasi, nel suo "Castoro" su Mizoguchi, sintetizza così la scena dell'addio tra Oishi e la moglie: «il semplice "abbi cura di te" pronunciato da Oishi e la sua mano allungata, in tensione e stretta ai bordi del braciere che separa l'uomo dalla donna, valgono più di mille "I love you"»).

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