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Harakiri

Regia di Masaki Kobayashi vedi scheda film

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La recensione su Harakiri

di Peppe Comune
9 stelle

Giappone, anno 1630, in seguito a delle riforme forzose adottate dallo shogunato, molte antiche famiglie andarono in disgrazia e non poterono più permettersi di mantenere lo stesso tenore di vita. Questo comportò la nascita di una massa indistinta di Ronin (Samurai senza più padrone), ognuno alla ricerca di un nuovo signore da poter servire. Uno di questi era Hanshiro Tsugumo (Tatsuya Nakadai), membro della casata Fukushima della provincia di Geishu. Questi si presentò nel palazzo della famiglia Iyi e ottenne di parlare direttamente col primogenito della famiglia, l’intendente Kegeyu Saito (Rentaro Mikuni). Vista la condizione di miseria in cui era caduto, e dato che non riusciva a svolgere le sue funzioni di Samurai presso un’altra famiglia, chiese che gli venisse concesso un posto onorevole nel palazzo per effettuare Harakiri (suicidio rituale). In quel tempo, molti Ronin minacciavano di fare harakiri con la speranza di ricevere un impiego o dell’elemosina. Ragion per cui, nel tentativo di dissuadere dal suo intento Hanshiro Tsugumo, l’intendente gli raccontò la storia di altro ronin, Motome Chijiiwa (Akira Ishihama), venuto qualche mese prima con la sua stessa richiesta. Tra i due iniziò un serrato scambio di vedute, da cui emerse che Hanshiro Tsugumo conosceva molto bene Motome Chijiiwa, così come conosceva bene i motivi profondi che avevano indotto il giovane Ronin a recarsi al palazzo e fare quella richiesta.

 

scena

Harakiri (1962): scena

 

“Harakiri” di Masaki Kobayashi è un film di raffinata bellezza stilistica, la dimostrazione di come il cinema possa toccare alti livelli speculativi lasciando solo che il semplice fluire del narrato faccia il proprio corso. Si parla di amore per la vita e dignità della morte, di senso dell’onore di casta e valore dell’uomo, della ricchezza come condizione sociale per conservare i privilegi corporativi e della miseria come premessa prima per la perdita dell’umana identità. Il tutto, proiettandoci nel Giappone del 600 per mostrare le implicazioni presenti di temi dalla natura universale. Col piglio civile di sempre del “demistificatore” Kobayashi, che lungo tutta la sua luminosa carriera cinematografica non ha mai avuto il timore di mostrare da che parte stare.

Mi è capitato di leggere (non ricordo dove e quando però) che Harakiri ricorda molto “Rashomon” di Akira Kurosawa. Si, se prendiamo come riferimento comune l’eleganza stilistica che permea entrambi i film, il fatto che della parola si fa un uso importante, che attraverso la struttura narrativa si vuole giungere a qualche riflessione sulla natura umana. No, se ci concentriamo sulle finalità speculative cui entrambi i film vogliono giungere. Se nel capolavoro di Kurosawa, un fatto delittuoso produce quattro diverse verità, in questo caso una sola verità produce più punti di vista. Dunque, l’elemento fondamentale che li accomuna è la domanda “che cos’è la verità ?”. Ma se in Rashomon si vuole filosoficamente argomentare sull’estrema difficoltà di giungere ad una verità assoluta accettata da chiunque, in “Harakiri” l’intento è più sociale, ed è quello di rappresentare come una verità inoppugnabile possa essere raccontata con sfumature morali più o meno diverse a seconda del punto di vista che si adotta nel raccontarla. E’ sempre una questione di punti di vista, ma se nel primo, a produrre quattro verità tra loro alternative sono quattro distinti soggetti posti orizzontalmente lungo una stessa linea gerarchica, nel secondo, l’unica verità sulla morte per harakiri di un uomo, assume una valenza morale differente a seconda di chi racconta : il ronin in disgrazia Hanshiro Tsugumo o l’intendente Kegeyu Saito. “Rashomon” ci fa chiedere : “cos’è accaduto veramente ?” ; “Harakiri”, invece, porta ad interrogarci sul “come è accaduto e perchè”.

Emerge dunque evidente che la rigida gerarchizzazione della società giapponese centra molto nell’economia della storia, e Kobayashi non ha certo nascosto la volontà di voler fare di questo film un attacco frontale a tutto quel sistema di valori che ne reggevano le sorti. Raccontare una verità può produrre interpretazioni diverse a seconda se si è sopra o sotto nella scala gerarchica, se il punto di vista adottato è indirizzato dall’osservanza ad un sistema di valori che si vuole sacro ed inviolabile, o se, nel produrlo, siamo disposti a fornire tutte le motivazioni etiche del caso a chi ha compiuto quella determinata azione.  L’intendente Kegeyu Saito ha l’obbligo di salvaguardare l’onore di casta sopra ogni altra cosa, è schiavo consapevole di un sistema di valori che deve e vuole difendere senza indugi. Dal suo punto di vista, non ci sono motivazioni che possono mettere in discussione la validità di questa regola sacra. La sua visione è una e indivisibile, la sua condizione sociale non gli ha fatto vivere esperienze diverse da quelle prodotte dal mondo regale cui appartiene. L’unicità della posizione sociale è proprio quella che ha superato il ronin, che proviene dal quel mondo e di quel mondo ha sempre rispettato fedelmente le regole. L’essersi ritrovato spogliato di tutto gli ha fatto maturare una diversa prospettiva da cui poter vedere il mondo, facendogli scorgere tutti gli inganni perpetrati dai gestori del potere contro gli umili della terra. Da quest’ ottica, Hanshiro Tsugumo capisce che l’azione messsa a punto dal giovane Motome Chijiiwa (che poi scopriamo essere il marito della figlia Miho Tsugumo, interpretata da Shima Iwashita) aveva come unico scopo quello di cercare di fare qualche soldo per vincere la miseria estrema cui era ridotta la sua famiglia. Ora il ronin sa riconoscere benissimo la bellezza di un gesto così nobile, semplice e disinteressato, istintivo perché fatto di umana adesione alla vita, un gesto che viene direttamente dal cuore, figlio del mondo perché è il mondo che l’ha prodotto. Ora Hanshiro Tsugumo sa svincolarsi dal rispetto acritico di un codice, sa riconoscere tutta l’ipocrisia che si nasconde dentro  l’onore di casta, dietro una nobiltà d’animo che è solo di facciata, disumanizzata dal suo essere lontana dal mondo reale. L’uomo sa benissimo che al palazzo non potrà essere capita la nobiltà del gesto di Motome Chijiiwa, i punti di vista non potranno mai corrispondere lungo lo stesso binario della storia dell’uomo, ma va li a raccontare “l’altra storia” come parte fondamentale di un suo particolare disegno vendicativo. La piena consapevolezza del ronin di essere in una gabbia senza via d’uscita, in un mondo sordo alle voci che vengono dall’esterno, è quanto è servito a Masaki Kobayashi per delineare in maniera raffinata le finalità “ideologiche” del suo film. Il ronin va al palazzo per fare harakiri con la ferma intenzione di seguirne fedelmente il rituale, su questo no ci sono dubbi. Ma il fatto è che lui, non solo ha già messo in discussione tutto il sistema di valori cui ha sempre creduto, ma più va avanti e si fa serrato il confronto dialettico con l’intendente Kegeyu Saito, più si palesano le contraddizioni di comportamento di questi fedeli custodi di un codice che si vuole di natura divina, e sempre più assurde gli sembrano le motivazioni di principio che stanno legittimando agli occhi del mondo la sua morte. E noi con lui.

L’esercizio interpretativo dei fatti avrebbe bisogno di un etica che ne sviluppi dinamicamente il senso critico e non limitarsi alla semplice enunciazione delle cose che accadono. Di questo mi sembra essere convinto Masaki Kobayashi, che qui, come in altri film, pare chiedere alla Storia di non dimenticarsi mai delle motivazioni uman(ist)e quando si fanno i resoconti filologici sulle vicende umane. Grande cinema, dalle parti del capolavoro.

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