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La cinese

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su La cinese

di EightAndHalf
8 stelle

Tra il dire e il fare...Mao! Mao! "L'arte non è il riflesso della realtà, ma la realtà di quel riflesso", c'è un immenso abisso fra la conoscenza e l'applicazione, si impara applicando ma non si può applicare se prima non si ha imparato. Le contraddizioni di un'intera generazione, e così come Marx riteneva le sue stesse strutture storico-economiche morte in partenza, i roventi anni '60 avevano già nella loro stessa conformazione le radici della loro rovina, della loro drammatica, tragica fine, almeno nel momento della loro esplosione fuori, nel mondo, nella società piccolo-borghese in cui si comunica attraverso vetri sporchi e isolanti, che ci allontanano, che rendono anonima la massa, dentro gabbie che sono lo specchio del capitalismo, dell'imperialismo che ha causato Hitler, le degenerazioni del passato, che già negli anni '60 erano ricordi su cui riflettere e periodi storici di coerenza mentale e facilità di decodifica storiografica. La chinoise è la confusione, è la speranza che un qualcosa di non rivoluzionario come quattro o cinque piccolo-borghesi diventi rivoluzionario. Questo può succedere, ma non potrà mai succedere che diventi socialista, percorrerà il confine con il marxismo-leninismo insultando un revisionismo terroristico e attendendo nella Casa dei colori complementari che l'imperialismo crolli, senza pensare che l'imperialismo stesso sta facendo crollare monumenti ideali che si trasformano in macerie. Il percorso di formazione politica dei giovani protagonisti (Anne Wiazemsky e Jean-Pierre Léaud su tutti) è ripercorso nel suo carattere caotico e ricco di stimoli, caratteri che cozzano, rivelano la loro portata paradossale ed esplodono in immagini dinamiche e ricerca delle immagini. La ricerca politica è la ricerca dell'immagine, del colore puro, rosso blu giallo, la ricerca politica è tutta nei libri rossi di Mao Tse-Tung che ha chiuso le università in Cina e ha costretto al lavoro manuale. Il furore e il desiderio della rivoltà, in blu e in rosso scorrono davanti a noi scritte godardiane allo stato puro che sono i manifesti di un Cinema che vuole accorrere alla difesa di un presente che è già passato, che si fonda sull'utopia, ogni popolo ha il dovere di combattere l'imperialismo che ha invaso tutto il mondo, ma a cercare gli ideali sono pochi piccolo-borghesi che trovano nell'estremismo socialista le gioie di un'estate. La recherche, scoperte ideali che non saranno applicabili, che non avranno i presupposti per diventare dittatura del proletariato, che resteranno nelle mensole piene di Libri Rossi con cui si costruiscono le trincee delle radio-fucili. La violenza revisionista, come contenerla nell'impeto marxista-leninista, che pure si impone l'attesa e al massimo l'accompagnamento del capitalismo verso la sua fisiologica fine? Si urla alla finestra il proprio ideale, ma fuori è tutto peggio di prima, a Marx mancava qualcosa perché il saggio di profitto ancora non è caduto in maniera tendenziale. I giovani avranno la loro grande delusione, incarneranno sulla loro pelle (da suicidi, talvolta) la fine della Storia, della struttura ancora prima che della sovrastruttura, di un mondo che non è più decodificabile, che è disorganico alla maniera di Saint-Simon, in cui Godard ha maniera di riscontrare quella confusione sogno-realtà che non è altro se non la differenza fra riflesso della realtà e realtà del riflesso, la politica come recitazione di parti. Jean-Pierre Léaud è un attore e recita la parte del marxista-leninista e non riesce nemmeno a prendersi sul serio e si innamora e rimane deluso e fa smorfie, gesti, cammina avanti e indietro come accecato da un'illuminazione teatrale brechtiana, che lo fa "voltare", all'inizio, e lo fa "voltare" due volte, alla fine, tra un vetro imperialista e l'altro, dove modelli sfatti e bellissimi si affacciano sulle rovine, e l'Arte ha perso il suo potere, il parallelo si è rotto, non c'è più purezza, La chinoise diventa canto funebre, la triste litania visivamente violenta e tematicamente ostica della morte del passato e della nascita deforme di un futuro deformante.
Uno dei capolavori di Godard, necessita di più visioni per essere compreso nei moltissimi stimoli che offre, ma già ad una visione lascia amareggiati, come se ad essere confutati, su quel treno, nella realtà oggettiva di cui solo teoricamente avevamo definito la verità, fossimo proprio noi, dopo quel lungo processo di identificazione nel limbo della casa dove i protagonisti si rifugiano, come avveniva in certi film metacinematografici/metaartistici di Rivette (Out 1), come avviene nelle maschere pirandelliane di una realtà che un giorno per essere raccontata con l'Arte dovrà disturbare, e che trova in Godard un predecessore di quel disturbo artistico di cui ci compiacciamo nella nostra strutturale nullità. Rivelatore.

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