Regia di Luciana Piantanida vedi scheda film
TORINO FILM FESTIVAL 43 (2025)
In un’epoca in cui le città d’ogni dove si articolano in apparati umani, a costituire un organismo sociale complesso, finiscono spesso per essere dimenticati quei piccoli organi, apparentemente ausiliari, che operano un ruolo invero cruciale nel garantire la vitalità dell’intero sistema. Sotto la lente del microscopio, è possibile osservarne il movimento esterno, la pulsazione, ma la volontà di indagare a fondo il gravoso compito che quotidianamente assolvono resta, per i più, un ambito di interesse del tutto trascurabile. Eppure, quell’intradosso organico composto da silenziosi lavoratori, che sorreggono strenuamente interi settori, assumendosi l’onere di un ventaglio di mansioni ormai rigettate dalla maggioranza della popolazione, avrebbe più che mai bisogno di un riflettore acceso che ne restituisca il valore e, soprattutto, l’umanità.
Gli interpreti di questi ruoli dimenticati sono pressoché interamente migranti, in gran parte latinoamericani nel caso dell’Argentina, paese natio di Luciana Piantanida, animata dall’intento di fissarne su pellicola le intime esistenze.
Ebbene, è risaputo che un libro non si giudica dalla copertina, così come non si dovrebbe farlo con un film dal proprio titolo. Una strampalata massima non così fuori luogo nella mente della regista che, non a caso - stando a quanto trapelato da inattendibili fonti - pare abbia proceduto, nell’apprensione generale, a un’omissione dell’ultimo minuto, un taglio in favore della sintesi che, tuttavia, risulta doveroso ripristinare, per rendere giustizia alle reali intenzioni autoriali, con l’originale a recitare:
“Todas las fuerzas - Ovvero: come ho imparato a disumanizzare i caregiver nel mesto tentativo di celebrarli”
In effetti, la premessa – che intreccia la costrittiva routine lavorativa di un'assistente domiciliare per anziani con la misteriosa sparizione di un’ex collega – sembra orientarsi verso l’originaria meta, quando, d’un tratto e senza alcuna ragionevole avvisaglia, il film sterza bruscamente nel territorio del fantastico, affibbiando alla protagonista, così come a tutte le altre figure femminili nella medesima condizione, dei superpoteri. Dei superpoteri? Dei superpoteri.
Al di là dell’effetto involontariamente comico generato dall’irruzione di tali superiori facoltà, queste risultano totalmente ininfluenti nella progressione drammatica e nell’impatto con il circostante, facendo emergere con chiarezza l’assenza di coerenza interna; trattate come ordinari orpelli talentistici in un risultato tristemente grottesco, non rappresentano più di un vano tentativo di introiettare nello spettatore la stucchevole consapevolezza di vivere circondato da supposti eroi del quotidiano, sortendo invece l’effetto di aggravare ulteriormente la percezione già ghettizzante della categoria rappresentata. I poteri non innescano la minima variazione nel percepito sociale di quest’ultima e, anzi, la stringono ancor più saldamente nella propria morsa autoconservativa, senza mostrare il minimo cenno di integrazione o rivalsa proletaria.
In questo delirante scenario, il vero slancio creativo riguarda proprio l’ideazione delle sopracitate abilità. Dal momento che telecinesi e levitazione rappresentano sempreverdi forse fin troppo abusati, si è imposta la necessità di trovare qualcosa in maggior rapporto con il presente, capace di farsi metafora della condizione dei personaggi, che possa rappresentare il fulcro dell’intera narrazione: il dono del dialogo con i piccioni. Cos’altro, se non questo.
Un ferale rammarico, imperdonabile, non aver tuttavia potuto assistere visivamente a questa geniale intuizione, relegata al solo racconto orale, quando sarebbe stato di capitale interesse cogliere in prima persona le profonde riflessioni emerse dagli scambi tra bipede e pennuto.
A questo punto, perchè non osare di più, rimpiazzando direttamente il titolo in:
“La badante che sussurrava ai columbidi”?
Forse troppo ardito? Almeno un premio sarebbe stato, a quel punto, virtualmente ipotecato.
Globalmente, settanta minuti di vaneggiamento sono più che sufficienti per un film che si sgretola nel finale, incapace di sublimare il corposo trash accumulato evitando l’azzardo di chiudere con un primissimo piano del volatile in punto di morte, ad innescare un flashback rivelatore di come la propria interlocutrice scomparsa non fosse altro che la donna invisibile, la quale, nella senilità, aveva dimenticato come tornare a materializzarsi, svanendo lentamente in dissolvenza, tra gli applausi, sulle note di Povia.
Ma forse è chiedere troppo.
In fondo, per essere felici, basta accontentarsi delle briciole.
Più o meno come fa un piccione.
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