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Dodes'ka-den

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dodes'ka-den

di yume
10 stelle

“Volevo fare un film diverso, che non avesse niente a che fare col realismo, e nemmeno con i colori di tutti i giorni. In questo senso, Dodes’ka-den è il mio film più sperimentale, sia per la struttura sia per l’uso antinaturalistico del colore. In un certo senso, Dodes’ka-den è un lungo incubo. Perciò vi prevalgono le tinte stridenti, allucinanti"

 

Colpito dalla censura del mercato, fatto a pezzi e salvato a frammenti da una parte della critica [1] (di cui è singolare il vario modo di tradurre il titolo dei racconti di Yamamoto che ispirarono Kurosawa, da Una città senza stagioni di Kezich, Un quartiere senza stagioni di Morandini a La città senza stagioni di Grazzini, che promuove l’opera a “romanzo”, infine a Quartiere senza sole di Aldo Tassone, l’unico a rendere giustizia a titolo, film e accenti, indispensabili per l’onomatopéa) Dodés'ka-dén è il film degli anni difficili per la storia personale e artistica del regista, ma forse proprio questo fa sì che produca un’opera così innovativa e acuminata, che nulla concede a facili sociologismi e travalica di parecchie misure un certo modo di fare cinema di quegli anni, anticipando scenari di deprivazione,violenza,vuoto morale ed esistenziale, insomma vite underground,  che nel cinema odierno rappresentano a pieno titolo una certa condizione umana, e non solo nel cinema (arti visive, letteratura e musica non sono da meno e i codici della rappresentazione oggi trovano in questo film tante anticipazioni).

E allora si capisce il rifiuto, all’epoca, la difficoltà di entrare nei meccanismi di quel certo modo di fare cinema che usava linguaggi così stranianti, inusitati, disturbanti, al punto che si tentò perfino di eliminare la storia dell’homeless visionario col piccolo figlio che muore, uno dei momenti più belli del film. Del resto, è condanna e grandezza del genio anticipare i tempi, e le “schiere di ammiratori odierni” di cui parla Tassone gli rendono giustizia.

Una bidonville di Tokio (Horie-cho) ricostruita sul set, con scenari dipinti a colori[2], dice Bernard Cohn, “antinaturalistici  e fantastici”, che commentano a contrasti forti le scene e ne accentuano valenze semantiche a cui è perfettamente complementare il commento sonoro di Takemitsu, storie minime di convivenza fra “dannati della terra” che s’intrecciano in uno spazio claustrofobico, una piazzetta con comari in cerchio intorno ad una fontanella dove si lava e ci si lava, si commentano i rari passanti, fioriscono pettegolezzi e si trascina il giorno fra rifiuti di archeologia industriale, mentre passa sferragliando di tanto in tanto il minus habens Rokuchan, convinto di condurre un tram scandendo il metallico rumore delle lamiere……..Dodés'ka-dén, Dodés'ka-dén…….

Interni di baracche che riflettono gli abitanti, in un rispecchiamento puntuale di scelte di vita che vanno dal tentativo di décor piccolissimo borghese dell’impiegato Shima e sua moglie, orrida virago ma anche angelo del focolare per il marito (l’origine dei suoi tic nervosi non è un problema per lui), all’antro del solitario monomaniaco tagliuzzatore di tessuti, chiuso in un silenzio di morte, albero secco e senza vita come quello che spunta davanti alla sua porta, al rassicurante monolocale del signor Tamba, capace di smontare chiunque con inaspettati interventi a metà tra ironia e antica sapienza. [3]

Il rumoroso disordine delle baracche delle due coppie di “scambisti” dedite all’alcool fa da contrappeso all’ordine maniacale del laido zio che stupra la dolce Katsuko, schiava muta per cui la tenerezza del ragazzo delle bottiglie è un bene troppo grande per aspettare che finisca da sé. E lo accoltella.

Ma si può anche non avere neppure una baracca e dormire nella carcassa di una macchina da cui sognare la casa in collina con piscina, e vederla crescere fantasticamente ogni giorno, a partire dal cancello stile inglese, o forse liberty, fino al porticato, dove il bambino potrà giocare o sostare a leggere.

Stupefacente il linguaggio colto dell’homeless e ancor più la dolcezza comprensiva e diligente del bambino. La piscina, unico intervento del piccolo sulla fantasia del padre (maschera espressionista di rara efficacia) sarà la fossa dove verrà deposta la piccola urna bianca con le sue ceneri.

La tecnica della ripresa con la macchina fissa, prevalente in tutto il film, peraltro ampiamente tagliato rispetto alle quattro ore originali, ci consegna un’idea di tempo fuori del tempo, fra delirio e realtà, senza prospettive e dunque senza durata.

Uno sguardo in un girone d’Inferno dove si fugge nell’immaginario, nel silenzio, nell’alcool, nella demenza.

O nella quotidianità, comunque sia, che può perfino apparire l’unica forma di vita possibile a chi è stato negato tutto.

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[1]I colori smaglianti, i modelli espressionistici, le immagini visionarie, gli accenti surreali, l’intenzione lirica non compongono un effetto drammatico fantastico, verosimilmente ricercato da Kurosawa, ma definiscono un quadro pietistico estetizzante. Colpa di una materia narrativa su cui sono sospesi i rischi del melodramma e del miserabilismo, cui Kurosawa aggiunge il peso di un populismo sentimentale mai apparso così invadente nella sua opera.” Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 181, 1-2/1979

[2]Volevo fare un film diverso, che non avesse niente a che fare col realismo, e nemmeno con i colori di tutti i giorni. In questo senso, Dodes’ka-den è il mio film più sperimentale, sia per la struttura sia per l’uso antinaturalistico del colore. In un certo senso, Dodes’ka-den è un lungo incubo. Perciò vi prevalgono le tinte stridenti, allucinanti. Alcuni episodi sono a dominante gialla, in altri prevalgono tonalità tra il verde e il marrone. Nel tentativo di esprimere tutto col colore, ho dipinto anche il terreno”A.Kurosawa

[3] Tamba è l’uomo più vecchio e saggio della comunità, non denuncia il furto anche quando il ladro confessa, dà un falso veleno ad un vecchio che vuol morire, scava la fossa per il bambino morto,vive per sua scelta in questo mondo di diseredati, dando loro l’unica moneta possibile che è la pietà di fronte alla totale assenza di prospettive salvifiche (“Mi sono sempre chiesto perchè gli uomini non facciano qualcosa di più per andare d’accordo tra loro. Il vecchio Tamba, che aiuta i ladri a derubarlo di quel poco che ha, è un po’ l’incarnazione della superiore saggezza di cui il mondo avrebbe bisogno” id.)

 

 www.paoladigiuseppe.it

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