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Vita di O-Haru, donna galante

Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Vita di O-Haru, donna galante

di spopola
10 stelle

Insieme a Rashomon di Kurosawa, O-Haru è stata sicuramente l’opera che più di ogni altra ha contribuito nell’immediato (i primissimi anni ’50) ad imporre all’attenzione del mondo le straordinarie qualità innovative di una cinematografia (quella giapponese, fino ad allora pochissimo frequentata qui in Occidente) di straripate opulenza visiva e di altrettanta profondità introspettiva, oltre che  la clamorosa e folgorante occasione per rivelarci l’arte sublime di uno dei più gradi registi della storia del cinema, avvenuta, per quanto riguarda l’Italia, proprio alla Mostra di Venezia del 1952, dove O-Haru si aggiudicò il prestigioso secondo “premio internazionale” (equivalente al Leone d’Argento) che permise al film una circolazione (e un successo di critica e di pubblico) altrimenti impossibile da raggiungere.
Narrato secondo moduli che potremmo definire realistici, O-Haru può essere considerato un  “kôshoku mone” (film a tematica  amoroso-sessuale), ma allo stesso tempo è anche una drammatica incursione nelle oscurità angoscianti di un secolo lontano. Una “tragedia storica” insomma (potremmo benissimo definirla un apologo) che trae origine da un racconto del XVII secolo, periodo Genroku, e più esattamente dal romanzo di Saikaku Ihara pubblicato nel 1686.
La stratificata, densa sceneggiatura, è di Yoshikata Yoda  e costituisce l’eccellente ordito per intessere la trama di una struttura drammaturgica rigorosissima sulla quale il regista  può ricamare poi col filo della poesia.
Kenji Mizoguchi ricostruisce infatti con una eccezionale cura formale e un’impareggiabile eleganza di impaginazione, l’ambiente e i costumi di un tempo lontano (i giardini del palazzo, il principe feudatario e la sua corte, gli interni delle abitazioni ora ricche ora più miseramente fatiscenti, un balletto di fanciulle che danzano felici all’aperto fra bianche lenzuola svolazzanti, uno spettacolo di pupazzi, l’atmosfera rarefatta del tempio, gli umili ingrati mestieri della vita) e “costeggia” la vicenda della protagonista con lunghissimi carrelli laterali, a volte lentissimi altre più veloci, come se intendesse scortarla così nel suo percorso doloroso rimanendole vicino con affettuosa partecipazione. 
Sinuosi piani sequenza dominano la messa in scena di questa straziata vicenda, implacabile nella sua crudele lucidità, seguono gli attori fissando le loro figure “nell’aria e nello spazio” del morbido e avvolgente bianco e nero di Yoshimi Hirano, sui ritmi pacati della musica di Ichiro Saito, dove poi per contrasto, le carrellate che accompagnano l’unico momento in cui la donna può vedere suo figlio a distanza ravvicinata (ma senza farsi riconoscere) “raggiungono un’intensità emotiva lancinante” (Jacques Lourcelles) che rasentano il sublime.
O-Haru è la donna misoguchiana per eccellenza dunque, la sintesi perfetta dell’eroina calpestata ma non spenta,  che il regista mostra fisicamente quasi invariata nei diversi stadi della sua vita (il volto della protagonista – una eccellente Kinuyo Tanaka dalla ieratica, mirabile espressività – resta sempre uguale, sia nella giovinezza che nella vecchiaia - un’intuizione poetica che è anche una affascinante metafora  che “rinnega” il passare del tempo annullandolo visivamente). Intorno a lei,  la donna appunto che prende su di sé tutti i dolori del mondo, si muove la vita da cui è tragicamente esclusa, come a  voler sottolineare l’immutabilità di una situazione e ad evidenziare “la condanna di un destino dove ogni momento riflette la totalità delle  sue disgrazie” (ancora Lourcelles, che  definì l’opera “il primo film-somma dell’autore, compendio sintetico e geniale dei temi e delle ricerche formali di una vita intera”). Rassegnata a vivere nel nulla,  oggetto (spregevole) di desiderio, O-Haru diventerà sempre più  una creatura tristemente inquieta, una mater dolorosa dentro a una elaborata miniatura stilizzata che trasfigura però verso l'atrocità della tragedia.
Il ritratto dell’infelice O-Haru emerge gradualmente – e si definisce, rivissuta in  flash-back - proprio grazie a una lunga e complessa descrizione (oltre due ore) sviluppata in ampie volute narrative e  nobilitata da una straordinaria sapienza figurativa. Il ritmo è quello di un’elegia, il tono quello di una accorata meditazione sul destino umano, che è poi proprio ciò che definisce l’esistenza e il dramma di questa  donna “galante” condannata (o meglio costretta) ad essere vittima dell’egoismo sociale e destinata a testare sulla propria pelle l’esperienza estrema della disfatta senza riscatto: la sua vita è un susseguirsi di schiavitù imposte dall’altro sesso rappresentato nei sui differenti aspetti (comunque prevaricanti) del padre, del signore, del padrone, dell’amante, del marito, del figlio o anche del semplice cliente della casa da tè all’interno della quale sarà costretta a prostituirsi per sopravvivere.
E’ dunque un capolavoro O-Hara? O è invece un romanzo d’appendice ben costruito? Possiamo considerarlo un raffinato esempio di “jidai geki” dal gusto sapientemente pittorico, o lo dobbiamo valutare al contrario, come una elaborata rievocazione storica sorretta da precise ragioni polemiche  di carattere sociale?
Certamente è tutto questo e anche di più: un’aggiornata rilettura dell’opera (disponibile da pochi giorni  in versione  Dvd), al di là del suo splendore formale dal mirabile, esemplare equilibrio delle varie componenti che la animano, e andando  ben oltre la  positiva valutazione di quella classica compostezza sorretta da una eleganza quasi francescana delle immagini che ne contraddistingue lo stile, suggerisce infatti l’esistenza di molteplici piani di lettura (anche contraddittori) che si aggiungono a quelli canonici, stimolati dalle ormai remote  analisi “critiche “ effettuate in anni lontani. Le varie ipotesi ovviamente non sono necessariamente  eludibili a vicenda, ma si prestano anzi ad una sommatoria allettante e complessamente articolata di possibilità che lasciano davvero  aperta la porta per una personale, diversificata visione interpretativa, come ad indicare la percorribilità di  strade non conformi,  per raggiungere però poi un analogo risultato finale (tutte le strade portano a Roma, non è così che si dice?),  ugualmente  emozionale e suggestivamente efficace,  anche se non del tutto “definitivo”. Quale è quella giusta allora? E soprattutto: ne esiste  veramente una soltanto o si incrociano tutte fra loro senza soluzione di continuità e non sono per questo districabili? Perché al di  là della sua indiscutibile coerenza stilistica, Mizoguchi  è un regista  capace di rappresentare a seconda dei casi e delle necessità,  una visione modernamente tragica e quasi crudele della vita  (La sorella della geisha o La strada della vergogna per esempio), ma anche di “adagiarsi” su un “formalismo” calligrafico amabilmente stemperato (Yang Kwei Fei); di  privilegiare  superbe, indimenticabili elegie astoriche (I racconti della luna pallida d’agosto) o di penetrare dentro la carne pulsante  di romanzi potentemente radicati  nella realtà sociale come  Racconto di  Shikamatsu . Ecco, proprio tenendo conto di questa straordinaria peculiarità, possiamo dire allora (almeno io mi azzardo a farlo) che O-Haru è probabilmente tutto questo riunito insieme,  poiché rappresenta certamente, unitamente a L’intendente  Sansho, il momento di maggiore equilibrio di tutto il suo lavoro: il passato è rivissuto con una sottesa vena di nostalgia, ma al tempo stesso osservandolo con acuto senso critico; le situazioni sono veementi e patetiche, ma la narrazione è improntata a una sobria, rattenuta classicità priva di patetismi; il ricorrente tema “femminista” ha risonanze da tragedia, ma sullo sfondo, probabile residuo del mondo pittorico e quasi rabelaisiano  che sembra essere stato uno degli elementi predominanti nel romanzo  da cui trae origine la storia, guizzano sottili e maliziosi accenni satirici che fanno la differenza. Pensiamo ad esempio alle sequenze che vedono O-Haru scelta da un vecchio dignitario  per dare un erede al principe feudatario: dai toni da commedia (l’interrogatorio del vecchio,  l’eccitazione dei cortigiani, la vestizione dell’”eletta”) si passa impercettibilmente e senza soluzione di continuità, alla straziante separazione forzata della donna dal bambino appena nato, che è uno dei momenti più altamente drammatici di tutto il percorso. E non si avverte alcun brusco trapasso di tono, tutto arriva fluido e naturale, grazie forse anche ai leitmotiv della tristezza e dell’umiliazione femminile, due elementi questi  presenti anche nelle pagine satiriche, sottolineati nel caso in esame, dalle brevi, dolenti apparizioni della legittima consorte del signorotto, anche lei con tutto il carico della sua pena segreta, così diversa, ma allo stesso tempo così vicina  (similare) a quella della protagonista. Qualcosa di simile succede anche nella sequenza della casa da tè, quando arriva il falso riccone: la tragicomica eccitazione del tenutario della casa di tolleranza e delle altre prostitute  che vi albergano di fronte al denaro elargito copiosamente dall’uomo, e alla successiva irritazione di scoprire che quel denaro è falso, non toccano che da lontano la protagonista, ma si rifrangono  comunque contro la sua sofferenza che la rende ormai incapace di illusioni o di gesti oppositivi violenti, facendola rimanere una muta osservatrice esterna.
Più che un personaggio realisticamente concreto,  mi pare allora che O-Haru  sia soprattutto il simbolo terribilmente anacronistico di quella che era la condizione della donna nel Giappone del secolo diciassettesimo, che raffiguri cioè la metaforica “docilità” di chi conosce il dolore ma non la ribellione : damigella corteggiata, romantica eroina di un amore tragico, figlia infelice, favorita del principe feudatario, prostituta di lusso, serva, religiosa  e poi donna di strada, perché questo è il suo calvario, è con la sua muta e malinconica presenza che lega le varie situazioni e le tappe della sua personale via crucis (ne diventa il necessario il collante), ma ciò che prevale sembra essere la rassegnazione senza speranza, anche se la protesta, la critica sociale è implicitamente presente, e non manca nemmeno un personaggio – sia pure più secondario -  consapevolmente sedizioso, che è poi il servo che viene mandato a morte per aver osato amare una donna di rango superiore. Nel suo grido e nella sua previsione di “tempi migliori”, sta indubbiamente il significato (o almeno uno dei significati possibili) del film, anche se quelle parole sembrano riguardare soltanto la sua figura secondaria ma non avulsa  dal contesto generale, essendo l'elemento "catartico" di ogni accadimento successivo.
Della grandezza della Tanaka ho già parlato (un’attrice  di prepotente pregnanza, ma pochissimo nota purtroppo al di fuori del suo paese). Sarà curioso semmai ritrovare fra gli interpreti un giovanissimo Toshiro Mifune (l’innamorato di classe inferiore che sedurrà la ragazza e che sarà l’origine della progressiva discesa all’inferno della donna).

Sulla trama

Il Giappone del XVII secolo. Yba vecchia osserva le statue di Buddha che affollano un tempio, fra le quali una che le ricorda il volto di Katsunosuke, ol servo della famiglia nobile cui apparteneva la giovane e che er astato il suo primo amore, decapitato poi per aver osato avvicinarsi a una donna di rango superiore. Cacciata con la sua famiglia per questa "colpa" nei suoi ormia peregrinaggi randagi, O-Haru apprenderà che il capo del clan Matsudaira cerca una donna da cui avere un figlio. I genitori la spingeranno ad accettare. Accolta nella casa sontuosa del nobile, gli darà il figlio tanto sospirato che la moglie non era in grado di concepire ma appena nato il bambino, sarà cacciata. L'umiliazione subita induce il collerico padre a vendrla a una casa di piacere. ma neppure lì riuscirà a restare. Di nuovo raminga, finirà al servizio di un mercante. Sposa di un venditore di ventagli che un ladro ammazza nel tentativo di rapinarlo, si rifugerà in un tempio dove subirà le brame di un commerciante dis toffe. Senza un soldo si riduce a mendicare. Un gruppo di prostitute l'avvia al mesiere. Vi si rassegna, nelal speranza di poter essere accolta un giorno dal figlio che ora è il nuovo capo del clan. Non glielo permetteranno però, e potra vederlo solo da lontano, passare in pompa magna per la strada.... Fuggirà di nuovo disperata e ormai conspevole della sua sorte. 

Su Kenji Mizoguchi

Il film di Mizoguchi trasforma in qualcosa di spirituale il romanzo picaresco di Saikaku sulle alterne fortune di una donna nel corso della sua travagliata esistenza. Una sequenza in particolare lo rivela con rara efficacia. La storia volge al termine e O-Haru si è ridotta a chiedere l'elemosina suonando per strada. E' seduta davanti a un ingresso, poi in una ripresa più ravvicinata si alza, in reazione a qualcosa, e si dirige verso destra salendo un leggero pendio; vediamo infine ciò che l'ha colpita: il corteo a seguito di suo figlio (avuto in giovane età da un nobile che subito dopo l'aveva cacciata). La donna riesce soltanto a intravedere il ragazzo, poi la macchina da presa ci riporta indietro con lei. Tra la prima e l'ultima immagine, in una sequenza di oltre cinque minuti, ci sono solo nove inquadrature, l'ultima delle quali (che dura più di due minuti) di particolare bellezza: per metà del tempo la macchina da presa segue la protagonista che torna sui suoi passi, infine su ferma quando la donna si risiede al suo posto e piange, in un momento mirabile e intenso. La muta e inattesa materializzazione del passato di O-Haru all'interno del suo presente ci affascina e raggiunge la perfezione grazie alla padronanza che Mizoguchi ha dell'inquadratura mobile e di quella fissa, dei giochi di luce e ombra, del suono (non c'è dialogo) e delle espressioni e dei movimenti dell'attrice; al tempos tesso, la forza di tutti questi elementi trasforma la protagonista in una figura mistica. (Blake Lucas, scrittore e critico cinematografico: CINEMA - 1000 momenti fondamentali - Il Castoro editore)

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