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I ragazzi del massacro

Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I ragazzi del massacro

di maghella
8 stelle

L'inizio di questo film è tra i più brutali che abbia mai visto: una lunga scena di stupro da parte di un gruppo di giovani studenti su una maestra, all'interno di un'aula, in una scuola.
Il luogo che dovrebbe essere sicuro e protetto, viene “sconsacrato” con una sequenza senza nessuna pietà, che mostra la giovane donna seviziata e infine uccisa dagli studenti che avrebbero dovuto essere lì per crescere ed istruirsi, per diventare uomini migliori.



 

La scena è senza dialoghi, con una colonna sonora incalzante, girata con la macchina da presa a braccio, unica maniera possibile per girare con tante persone una sequenza così difficile e complessa.



 

Lo stupro iniziale mostra subito così la vittima e i carnefici, un gruppetto di ragazzi “difficili” tra i 13 e i 18 anni, che frequentano la scuola serale. Ragazzi da recuperare, delinquenti che hanno già conosciuto in qualche caso il riformatorio, ma che avevano trovato nella maestra una figura positiva da seguire.



 

Le indagini svolte dal commissario Duca Lamberti individuano immediatamente i colpevoli, che si spalleggiano gli uni con gli altri, utilizzando la difensiva del “scaricabarile”, cercando di incolpare l'unico ragazzo perbene del gruppo che proprio durante l'interrogatorio con il commissario confesserà la sua omosessualità.



Il commissario comprende però immediatamente che dietro al branco di ragazzini c'è una mente più diabolica e matura, che ha tramato tutta la vicenda, un mandante che con astuzia ha plagiato e manovrato i ragazzi. Sarà la cattura del mandante il vero obiettivo del commissario.


Tratto dal romanzo omonimo di Giorgio Scerbanenco, il film di Di Leo è forse il primo esempio di “film-denuncia” su un fenomeno di violenza urbana che si stava sempre più sviluppando nelle grandi città, ma che un perbenismo borghese cercava di tenere celata.



Di Leo mostra tale violenza, non solo con la scena dello stupro, mostrando il corpo della giovane e innocente maestra nudo con le ferite della lotta e il sangue nelle parti intime, ma anche nel modo in cui i ragazzi vengono descritti: senza alcun segno di pentimento, sicuri della loro copertura da parte di un mandante adulto che li manovra grazie a droghe alcool e soldi, si fanno forti del branco e umiliano e sacrificano i più deboli e i “diversi”.



 

Il commissario Lamberti utilizzerebbe metodi forti e violenti contro i ragazzi, ma deve mostrarsi civile e corretto, cerca così metodi alternativi per poter ottenere giustizia. Proprio con l'astuzia e l'aiuto di una assistente sociale che l'aiuta nel comprendere meglio certi comportamenti giovanili difficili, riuscirà ad arrivare al mandante, che è l'incarnazione di un “bubbone malato” sociale che va eliminato.



 

Una sorta di travestito uomo/donna che non viene mai mostrato in volto, che manovra i ragazzi con astuzia e che in verità ha gestito male la missione punitiva verso la povera maestra, rea solo di aver fatto “innamorare” il giovane ragazzo di cui il travestito si era invaghito, questo il movente di un omicidio così brutale, possibile solo grazie all'uso dell'anice lattescente portato in aula proprio dal mandante, una sostanza liquorosa ad alto tasso alcolico che fa perdere il senso della realtà ai giovani ragazzi rendendoli ancora più violenti.



 

Qualche anno prima di “Arancia meccanica” di Kubrick, Di Leo ci mostra i “nostri” drughi nostrani, che bevono anice lattescente al posto di “latte più” e risultano molto ma molto più brutali e meschini di Alex e la sua banda. Di Leo prende come spunto il lavoro di Scerbanenco per costruire una storia che per l'epoca era davvero attuale e per alcuni fatti di cronaca quasi premonitrice.



Ottima la scelta di Pier Paolo Capponi, che riesce ad incarnare un commissario dalle mille sfumature: deciso ma tenero con chi capisce che potrà condurlo alla soluzione finale, convinto a catturare il mandante contro tutto e tutti, anche a costo della propria carriera.



Ottima la scelta di utilizzare per il “branco” ragazzi di strada, non attori professionisti, scelti esclusivamente per le loro caratteristiche fisiche e per i volti segnati da una reale vita difficile.



Alcuni di loro hanno cercato in seguito una carriera nel settore cinematografico, invano.


Fernado Di Leo è uno dei registi italiani che più mi piacciono tra quelli del così detto “Cinema di serie B”, con una grande coscienza sociale si è sempre impegnato in lavori di tutto rispetto, mantenendo il suo sguardo severo su quelli che secondo lui erano “i bubboni da far esplodere”. Più che un cinema-denuncia il suo mi piace pensarlo come un cinema-necessario, necessario a lui per poter confezionare lavori di tutto rispetto che nulla avevano da invidiare a nomi di registi più illustri. Di Leo dice di sé di essere stato “sfortunato” a lavorare in un periodo in cui vi erano i Visconti e i Fellini a farla da padrone, tutto il resto era cinema italiano relegato a “seconda categoria”, per questo spesso e volentieri “per campare” ha dovuto fare anche film davvero mediocri, che lui stesso reputa indegni della sua professionalità.

Una professionalità che in questo film si mostra in tutte le sue eccellenze.


Di Leo ha anche il merito di aver mostrato per la prima volta sugli schermi una Italia non troppo simpatica, un realismo a colori e brutale, violento, senza troppi fronzoli poetici e folkloristici, che non era molto gradito ai potenti dell'epoca, proprio come accadde per il neorealismo di De Sica e Rossellini. Un realismo vissuto nelle grandi città che stavano vivendo il boom economico, ma anche la contestazione giovanile e i primi disagi sociali quali droga e prostituzione.



 

Il film, rivisto anche oggi, rimane scioccante e di forte impatto, lo consiglio vivamente per chi vuole scoprire un grande regista del buon cinema italiano, lo consiglio a chi già lo conosce per una ripassata su un nome di tutto rispetto da riscoprire.

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