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Ferro 3. La casa vuota

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Ferro 3. La casa vuota

di scandoniano
8 stelle

Ferro 3 è un film poetico. Che basa la sua poesia su un minimalismo diffuso, che va dalle sceneggiatura ai dialoghi. Proprio quest’ultimo aspetto è quello che maggiormente caratterizza l’opera: la protagonista è silente, tanto silente da destare il dubbio che sia muta; il protagonista è introspettivo: silenzioso, ma deciso: in una parola risoluto. Quasi una lezione di cinema: un ritorno all’epoca in cui non occorreva (s)parlare per ottenere il consenso della massa, ma l’essenzialità della storia e la bellezza delle immagini prescindevano dai dialoghi. Il silenzio contro la parola: i due protagonisti si conoscono e si innamorano stando zitti; il resto del mondo sembra parlare oltre il dovuto ed usare il telefono con facilità imbarazzante.
La trama: è la storia di un ragazzo che invade ad insaputa dei proprietari le abitazioni di gente comune, fuori casa per brevi periodi. Tae-suk forza le serrature, entra, dorme, si lava e il mattino seguente lascia tutto in ordine, prendendosi cura dell’abitazione come se fosse sua; un riguardo estremo che si concretizza spesso nell’atto di riparare bilance, orologi, o quant’altro non funzioni. In una delle sue incursioni Tae-suk si imbatte nell’abitazione che la bella Sun-hwa condivide col marito manesco. Quando il ragazzo viola la casa Sun-hwa è li, tumefatta e silenziosa. Tra i due si instaura un rapporto di confidenza molto speciale, quasi fanciullesco. I due non si parlano, eppure si capiscono. Al rientro del marito, Tae-suk lo tramortisce a colpi di palla da golf, ripagandolo per le continue percosse a Sun-hwa, che in cuor suo egli già ama. L’amore è corrisposto, ma difficile perché lui non ne è abituato, lei ne è terrorizzata. I due scappano e vivranno peripezie diverse sempre nel rispetto del silenzio e della dedizione reciproca.
Il finale è meraviglioso. Dopo numerosi tentativi di mutare metafisicamente, Tae-suk diventa una sorta di fantasma (o lo è realmente?). Si immedesima con la macchina da presa, tornando nelle case che visitò con la sua amata e ripercorrendone i gesti, prendendosi qualche piccola vendetta, ma rimembrando il lento processo amoroso che li portò all’amore. Le ultime inquadrature sono davvero commoventi: lei tradisce suo marito dichiarandogli ciò che in realtà sta dicendo a lui: Tae-suk è invisibile a tutti, ma la forza dell’amore lo rende manifesto a Sun-hwa.
Le legge e le convenzioni vogliono lui un rapinatore e lei una fedifraga? Loro vivranno la loro vita comunque, anche a costo di sparire insieme. L’ultima inquadratura su cui scorrono i titoli di coda è da brividi.
Kim Ki-duk si conferma autore di un talento cristallino. Padroneggia la macchina da presa con maestria e si inventa voli pindarici che non sono fatti di tecnica cinematografica, bensì di pura empatia: quello del regista coreano è un tecnicismo psichico, un giocare con l’armonia dell’esistenziale, un suono d’arpa in mezzo a tante grancasse.

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