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The Driller Killer

Regia di Abel Ferrara vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Driller Killer

di Bebert
8 stelle

Un occhio morto, senza riflessi vividi, è quello del bisonte che il pittore Reno Miller (Abel Ferrara) sta mettendo sulla tela e che crede di poter vendere al suo gallerista e risolvere i problemi economici che lo tormentano. Un coniglio scuoiato è il regalo del suo padrone di casa che attende il pagamento degli affitti arretrati: carne e sangue e ancora quell’occhio opaco, scuro e angosciante. Nella New York – città della speranza – Ferrara gira nel 1979, il suo primo lungometraggio non pornografico, un film quasi documentaristico, perché rimangono impresse le immagini della miseria e della demenza, della perdita d’ogni reale ambizione (ogni desiderio) che muta in brama d’uscirne, ma non è possibile. Il regista muove dall’osceno del sesso all’osceno della violenza e della morte: l’ultimo tabù, forse l’unico.

Gli homeless dormono per strada, bevono e cercano di non pensare, vomitano e la cinepresa riprende senza volontà di dichiarare, è bene / è male. E’ così, è la realtà di una città cristiana: Reno entra in chiesa e vi trova un vecchio, forse il padre che improvvisamente lo tocca. Una maledizione e l’inizio di una discesa inarrestabile verso la follia dell’omicidio, reiterato meccanicamente con un trapano e una cintura porta-batterie: un elettrodomestico, una “comodità” pubblicizzata dalla TV. Un film violento e ambiguo, da non confondere con uno dei tanti splatter: non è materia per lo scrittore- sceneggiatore Nicolas St. John,che è interessato alle interdizioni sacrali ed al loro sovvertimento.

Non è il sangue a inorridirci, è la psicopatia che copre tutti i momenti e gli ambienti claustrofobici; fino la musica dei Roosters, la band che si trasferisce nel palazzo di Reno e lo ossessiona coi continui giri di blues, alterati in un ibrido chiasso da una voce inascoltabile. Il leader Tony Coca-Cola innervosisce anche noi (vuole diventare un Iggy Pop? Bene, ma ci lasci un po’ di respiro). Non c’è scampo. E Reno trova sfogo nell’ammazzare i senzatetto, col suo trapano (non vuole essere come loro o è già come loro): uno è addirittura crocefisso, inchiodato ad un muro della città: la sua croce è New York. C’è lo Scorsese di Taxi Driver (1976) e Reno è come Travis, il protagonista, che trova nulla oltre l’omicidio per far giustizia e dare-darsi un senso; ma fino a quando? Ucciderà ancora? Ritroviamo un’America simile in “The Assassination” di Niels Mueller (2004), ambientato nel ’74: la via di fuga è la medesima.

Reno dipinge un quadro che il gallerista giudica uno sfoggio di tecnica senza sincerità ma potrà cambiar idea: basterà un invito a cena, solo col pittore e una bottiglia di vino rosso… l’opera apparirà un capolavoro. Infinite possibilità per il SUCCESSO: solo compromessi, ricatti e menzogne, frottole, tradimenti. Reno non si ferma più e trascina con sé anche la sua compagna, Carol, dentro il buio dell’esistenza ed anche la pellicola termina nera: non attendiamo un castigo, non c’è da pensare a un’espiazione.

Un film a basso costo, girato con due cineprese da 16 mm, con attori non professionisti e lo notiamo nei titoli di coda: rapidi e scarni, al contrario di altre opere, in cui compaiono centinaia di collaboratori. Ma c’è già tutto: la base delle opere successive del regista, più complete ma che da questa ricavano il contenuto.

 

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