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La sposa turca

Regia di Fatih Akin vedi scheda film

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La recensione su La sposa turca

di Peppe Comune
7 stelle

Sibel (Sibel Kekilli) e Cahit (Bitol Unel) si incontrano per caso in ospedale. Entrambi hanno tentato di suicidarsi e sono in attesa di andare a colloquio con lo psichiatra della clinica. Sibel per finta, tagliandosi le vene dal verso sbagliato (come gli spiegherà proprio Cahit), perchè stanca di sottostare alle rigide regole della sua famiglia, patriarcale e maschilista. Chait, invece, si è andato a schiantare sul serio con la macchina contro un muro, perchè non ha del tutto superato il dolore per la morte della moglie. Scoperte le comuni origini turche, Sibel avvicina Cahit e gli chiede di sposarla minacciando di uccidersi (per davvero questa volta) se non accetterà. Solo per finta però, per affrancarsi dalla bieca intransigenza del padre e del fratello. Perchè Sibel vuole solo "vivere, ballare e scopare. E non con un solo uomo". 

 

 

"La sposa turca" (Orso d'Oro a Berlino) è stato il film che ha fatto conoscere a livello internazionale il talento di Fatih Akin, un autore capace di rappresentare i malesseri della "comunità turca" in Germania senza essere, ne eccessivamente pesante ne gratuitamente declamatorio, sviscerando le tematiche profonde legate al multiculturalismo equilibrando con sapiente abilità tecnica gli schemi della commedia con quelli del dramma. La sua poetica si incentra sopratutto sulla sorte dei giovani turchi trapiantati in Germania, quelli della seconda o terza generazione di immigrati che magari non sono mai stati in Turchia, che vivono un presente subendo tutte le tensioni indotte dalla deregolamentazione del mondo globalizzato ed hanno un retaggio culturale e familiare che li riporta sempre ad un paese con cui dovranno prima o poi fare definitivamente i conti. Per Akin la Turchia rappresenta sempre un cerchio che si chiude e questo fa si che i turchi di Germania, anche se perfettamente integrati, sembrano rimanere degli ospiti nella terra che li ha visti nascere e crescere. Sibel e Cahit rappresentano un emblema esplicito sotto questo punto di vista, due anime solitarie perse nella perenne indeterminatezza delle loro esistenze, con un presente incerto e tutto da ricostruire e senza un passato che possa fornire valide coordinate verso cui tendere. Vivono con la terra d'origine un rapporto conflittuale, certamente frutto di vicende personali, ma anche figlio dell'evidente impossibilità di rapportarsi fedelmente con esso stando in un paese percorso da ogni tipo di tensione interetnica, nel cuore dell'occidente "globalizzato". La mancanza di un centro che equilibri la loro disfunzione sistemica, prima li fa unire nel segno della reciproca carica autodistruttiva e poi li divide in ragione di un amore che infiamma sul nascere il sogno di una vita. Proprio quando stanno vincendo la vicendevole indifferenza e stanno scoprendo l'uno l'indispensabilità affettiva dell'altro, la rabbia arma il destino che vuole separarli per sempre. Akin tratteggia questa evoluzione affettiva non solo avvicinando gli sguardi di Sibel e Cahit ma anche facendo coincidere la messa in ordine di certi sussulti del cuore con la riscoperta delle comuni origini turche, con la pulsione delle proprie radici profonde che vengono a palesare la loro atavica presenza. Alla fine, è nei dedali di una Istanbul scarnificata di tutto il suo fascino madiorientale che ognuno dovrà decidere la strada da prendere. Ritornando nel paese che, nel bene e nel male, non li ha lasciati mai soli.

 

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