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Lavorare con lentezza

Regia di Guido Chiesa vedi scheda film

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La recensione su Lavorare con lentezza

di lao
4 stelle

IL TEMPO CHE FU----Il provocatorio intento di infrangere le barriere del linguaggio filmico tradizionale e di ribaltare luoghi comuni su avvenimenti di cronaca oramai inattuali ha influito sul su contenuto e stile di regia di “Lavorare con lentezza”, l’ultimo lavoro di Chiesa,regista torinese. Un progetto ambizioso, meritevole di attenzione certo, ma solo in minima parte riuscito. Il film vuole raccontare la Bologna del Movimento del ’77, quella galassia di gruppuscoli dalle caratteristiche varie che gravitata attorno a Radio Alice, una delle prime in Italia a usare il telefono in diretta, e nel farlo rievoca slogan e pratiche di quel periodo, mischiando tono drammatico e comico, per imitare un modo di essere giocoso e liberatorio, ma profondamente serio nelle sue motivazioni. E come se fosse girato in quegli anni il film ne riproduce fedelmente clima e ideali: il rifiuto del lavoro in fabbrica o dello studio, l’immaginazione al potere, il libero amore, i collettivi femministi e le sedute di autocoscienza, le guerra contro la famiglia e il privato borghese, la vita in comune, musica e arte libere da condizionamenti estetici e commerciali, una politica di strada non ingabbiata nei diktat di partito e di sindacato, insomma un abbozzo di società alternativa a quella costruita da padri e nonni, ma anche anche contraddizioni, dogmatismo, violenza e scontri armati con la polizia. Lo spirito irripetibile di quel decennio di contestazione ha ispirato “The dreamers” di Bertolucci o “Buongiorno notte” di Belloccio, che selezionando singoli momenti ne hanno dato un’interpretazione personale e nello stesso tempo rivelatrice di istanze di fondo, quali il bisogno universale di liberarsi dell’ingombrante figura paterna o di ispirarsi a modelli culturali imposti dalle mode. Chiesa invece riempie una stanza di musica, di scritte sui muri,di gente dalla provenienza, per lo più ignota, di frasi ad effetto, declamate a ruota libera, mette il tutto dietro la sua macchian da presa, usando come collante la storia di Pelo e Squalo, due emarginati che scavando un tunnel per rapinare una banca del centro scoprono la rivoluzione: chi ha vissuto quegli anni ricorda ma agli altri arrivano solo bagliori in un quadro caotico animato da macchiette o da banditi in cerca di rivalsa e giustificazione. Ed è forse qui il punto più discutibile di quest’operazione di riesumazione: nell’indicare le cause dell’aspirazione da parte della società italiana a cambiamenti radicali, egli le individua nel disagio sociale e nel grigiore delle periferie urbane e associa, senza volerlo, un’ansia di rinnovamento trasversale a tutte le classi alla delinquenza comune: ne risulta una semplificazione ambigua in base alla quale l’invito ad abbandonare la fabbrica coincide con una qualunquistica scorciatoia per il benessere. E’ vero che traspaiono ragioni diverse nell’avvocatessa battagliera o nel commerciante di vini capo banda colto e filosofo, in cerca più di domande che di risposte, ma manca un punto di vista critico o anche solo nostalgico unificante. Ed infine è difficile che non suoni beffardamente anacronistico o addirittura incomprensenbile l’invito a lavorare meno in una società in cui chi è giovane ( e non solo) corre il rischio di doverlo fare davvero e per sempre.

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