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Il fascino discreto della borghesia

Regia di Luis Buñuel vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il fascino discreto della borghesia

di MarioC
10 stelle

 

Questo non è un film avrebbe detto Magritte, che di Bunuel era fratellino appena maggiore nonché parente stretto in sberleffi e provocazioni. Già, perché Il fascino discreto della borghesia, oggetto filmico indiscutibile, in quanto strutturato come tale, è qualcosa di più: una sorta di trattato fintamente ironico sui riti, le manie e le (false) ripartenze di una ben definita classe sociale, un campionario onirico di mostri ed incubi, un vaudeville di parole al vento, un’immersione psicoanalitica, come e più che ne L'angelo sterminatore, nella categoria degli atti mancati (nonché, come acutamente notò Alberto Farassino nel suo saggio dedicato al regista spagnolo, dei piatti mancati), una consapevole, divertente e divertita presa per i fondelli dello spettatore, costantemente portato nel cul de sac, nel vicolo cieco della comprensione e perennemente frustrato nei suoi tentativi di razionalizzazione, un gioco di specchi, incastri e rimandi perfettamente compiuto eppure in movimento indefesso, certamente destinato a proseguire ben oltre la parola Fine (dove andranno quelle persone che camminano affannate sotto un sole cocente? E soprattutto: è, questo movimento, sogno o realtà? Può la borghesia, con i suoi più che degni rappresentanti, svincolarsi dalle catene di una immaginazione che è miseria ed incubo, pulsione primaria e tetragona chiusura, affari sporchi e soddisfacimento “regolare” dei bisogni del sesso e della prevaricazione?)

 

 

PRANZI, CENE E PAROLE. La lente di ingrandimento di Bunuel ed il suo grandangolo intellettuale, che è strumento sensibilmente deformante ma anche obiettivamente “registrante”, si dedicano ad un gruppo di persone: i Thevenot ed i Senechal, famiglie della buona borghesia parigina, appena adulterate dalla presenza ingombrante e tollerata di una cognata che pare vivere fuori dal tempo, dallo spazio e dalle coordinate del suo ambiente sociale (l’ubriachezza quale costante, la lettura di riviste di astrologia, la sostanziale indifferenza a quei riti luculliani cui pare quasi trascinata), l’ambasciatore della Repubblica di Miranda, alle prese con attacchi terroristici portati da ragazze appetibili e con i pregiudizi circa la reale democraticità della sua isola felice, un prete operaio appassionato di giardinaggio cui, naturalmente, è soltanto l’abito talare a conferire riconoscibilità e prestigio sociale. Obiettivo di questi animaletti in gabbia (ovvero attori su un palcoscenico che è indubbiamente sogno ma anche incubo terreno e paura da esorcizzare – Cosa ci faccio qui? Io non so la parte - , perché la vita è soltanto recita) è riuscire a sedere ad un desco e godere di raffinatissime delizie culinarie. Non ci riusciranno mai, per le ragioni più svariate e, come da marchio di fabbrica bunuelano, surreali. Avranno però il tempo, in quell’attesa che diventerà eterna, di ingollare e sputare parole e sentenze, piccoli discorsi senza alcun riferimento storico, politico o socale, e invece chiusi nell’ottica di un personalismo che rende questi borghesi (ma la borghesia quale nucleo appunto storico-politico-sociale) indifferenti al mondo e incapaci di un’azione che non sia basica (sesso, ovvero, anche qui, tentativi frustrati di consumazione; affari di droga, con in primo piano il sacco, misterioso contenitore che Bunuel ha più volte utilizzato; fame: Don Rafael di Miranda si sveglia da un sogno in cui, prima di essere ucciso, tenta di addentare voluttuosamente un cosciotto di vitello, e dunque deve aprire il frigorifero e mangiare con la famelicità che lo riporti al suo mondo ed alle sue certezze – cosa c’è di più eterno e di riposante del cibo e della possibilità di assaporarlo? - ). Parole che svicolano, sfuggono, lasciano emergere la tipica degnazione di chi si dà un tono (la preparazione del Martini, l’avversione verso il violoncello, l’invenzione all’impronta di un termine inesistente per coprire un tradimento a rischio evidenza, termine che, naturalmente, il marito dell’adultera fingerà di conoscere, per non tradire le regole di ingaggio di un gruppo sociale che, si diceva, deve specchiarsi in se stesso) ma lasciano sospesa nell’aria la sensazione di un nulla che il pessimismo irredimibile di Bunuel sa essere più che co(s)mico.

 

 

SOGNO O SON DESCO? E poi ci sono i sogni, ma anche i racconti, che arrivano ad interrompere quella continuità un po’ forzata di atti e pensieri, a portare nelle vite serenamente incanalate della borghesia la forza dell’imprevisto, il terrore della presa d’atto, il germe insano della consapevolezza drammatica. Sogni innanzitutto degli altri (evidentemente preparatori a quella santabarbara di incubi che, nel finale, turberanno i Thevenot ed i Senechal, proiettandoli in una dimensione di pre-depressione sino ad allora chiaramente ignota) e di uomini appartenenti alle forze militari (il potere costituito come stigma della borghesia, baluardo e presidio dei privilegi, tanto che, un po’ forzatamente, può leggersi il fascino discreto anche quale satira del franchismo, o del franchismo dal finto volto umano, in quegli anni prossimo alla caduta); sogni attraverso i quali Bunuel può effettuare i suoi esercizi di stile, i suoi svolazzi che aderiscono alla realtà survoltandola e deviandola con un piccolo sorriso e un’espressione di divertito sgomento. L’omicidio del patrigno, l’incontro con la madre morta, il riscatto del brigadiere insanguinato (qui, peraltro, si richiede un notevole surplus di attenzione allo spettatore, poiché il genio di Bunel si scatena in un gioco di scatole cinesi vorticoso e suadente, tra sogno nel sogno del sogno e realtà che si rivela, non marzullianamente ovvio, anch’essa pietanza onirica) sono le chiavi di volta di un’ossessione fallace: quella di incasellare il mondo, di organizzarlo secondo riti predefiniti che non tollerano intrusioni. Ancora i pranzi, ancora le cene: i tentativi falliti non esonerano i borghesi dal tentare ancora, come se quello fosse l’unico fine, l’unico scopo di una vita che ingoia, mastica e, spesso, riesce anche a digerire, comodamente, tutto.

 

HO SOGNATO CHE THEVENOT SOGNAVA CHE… La graniticità militare della borghesia è talmente marcata che i suoi esponenti fanno gli stessi sogni o, addirittura, si guardano sognare l’un l’altro, con, al risveglio, quell’espressione un po’ beota (ma anche impaurita, l’apocalisse deve essere dietro l’angolo) che ha chi guarda il dito anziché la luna. Thevenot sogna di essere su un palco, a mangiare polli di plastica, Senechal sogna che l’amico e sodale faccia questo sogno. Non c’è respiro, non c’è apertura; c’è un solo obiettivo, il mangiare, e un’unica enorme difficoltà: l’inconscio che si incarica di trasformare le pochezze in atti mancati ma anche, perché la borghesia ha memoria da elefante, in vendetta (il prete al capezzale di un moribondo riconosce in lui l’aguzzino dei genitori e decide, per così dire, di accelerare il lavoro di Nostro Signore), in camminate senza meta né, pare, sosta (inutile chiedersi dove vadano quei borghesi sotto il sole: fior di menti critiche hanno dato la loro risposta ma l’unica possibile, quella del regista, è racchiusa nell’ennesimo autistico sberleffo senza un evidente perché).

 

 

Il fascino discreto della borghesia è un capolavoro senza tempo, un oggetto (oscuro il giusto, desiderabile all’infinito) perfetto per tesi di laurea, saggi e gioiosissime masturbazioni intellettuali. Un prisma purissimo, complesso ma anche leggero come etere, forte di una sceneggiatura a più strati e livelli: il primo immediatamente comprensibile e scorrevole, l’altro, gli altri, persi nelle infinite deviazioni di quella mente diabolicamente sottile che era Bunuel. Il quale non teme nemmeno di sbeffeggiare gli spettatori (la maggior parte dei quali, c’è da scommettere, borghesi affamati): riverendoli, affascinandoli e quindi deludendoli nelle attese e nelle aspettative di comprensione (molti rumori di fondo, uniche musiche del film, coprono parole, forse inutili come tutte le altre, e che pure in quell’istante appaiono come portatrici di insondabili agnizioni). E se fosse stato tutto un sogno? Bando agli isterismi decrittatori: il vero sogno è avere ancora e sempre la possibilità di vedere opere come questa e di godere della sua lucidissima e più che sana follia.

 

 

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