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Fantozzi

Regia di Luciano Salce vedi scheda film

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La recensione su Fantozzi

di Peppe Comune
9 stelle

La signora Pina (Liù Bosisio) chiama allo “ spettabile centralino dell’ illustre società Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica” per chiedere “umilmente informazioni” sul marito, il Ragionier Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), impiegato nell’ufficio sinistri. Lei e la figlia Mariangela (Plinio Fernando) iniziano ad essere preoccupate perché il ragioniere non torna a casa da 18 giorni. La centralinista le risponde asettica che provvederanno a controllare. Fantozzi verrà ritrovato in quello che era un bagno ormai dismesso, letteralmente murato vivo. Ritorna mestamente alla sua scrivania, nell’indifferenza di tutti, dei dirigenti, che gli rimproverano l’assenza dal lavoro, e dei colleghi, che hanno piacere del suo ritorno solo perché possono tornare a passargli tutte le pratiche in eccesso. In questa prima sequenza, già c’è tutto l’universo fantozziano, l’uomo “invisibile” a cui capitano le disavventure più impensabili : la distanza siderale tra il mondo lavorativo consumato nella Megaditta e quello della tranquillità domestica ; l’utilizzo di un idioma sarcastico e corrosivo insieme ; una moglie remissiva fino all’eccesso ed una figlia “bertuccia”, le uniche persone che trattano umanamente Fantozzi ma anche quelle che inibiscono il ragioniere dall’intimo desiderio di evadere dai vincoli familiari ; il Fantozzi vessato sul luogo del lavoro dai suoi colleghi, brutalizzato dai dirigenti e praticamente annullato come uomo dal Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam (Paolo Paoloni), una figura mitologica di cui si mette addirittura in dubbio la reale esistenza.  Fantozzi è segretamente innamorato della signorina Silvani (Anna Mazzamauro), “miss quarto piano”, che gli preferisce decisamente la compagnia del geometra Calboni (Giuseppe Anatrelli), un dongiovanni da strapazzo arrogante ed opportunista. Può vantare due sole compagnie inseparabili il ragionier Fantozzi. Quella col ragionier Renzo Filini (Gigi Reder), un miope iperattivo sempre pronto ad organizzare cose che lo coinvolge in una miriade di situazioni sconvolgenti. E quella con l’inseparabile “nuvoletta da impiegato”, che arriva a ricordargli ogni volta quanto è grama la sua routinante esistenza.

 

   

Se è vero che qualsiasi opera della creatività umana è tanto più riuscita quanto più riesce ad imprimersi nell’immaginario collettivo di un popolo, allora il “Fantozzi” di Paolo Villaggio, in questa particolare classifica, si è meritato un posto di primo piano. Lo ha certamente fatto attraverso l’immediatezza iconografica di personaggi esemplari (l'anonima Pina, l'orripilante "bertuccia" Mariangela, la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, il Duca Conte Semenzara, il ragionier Filini, la signorina Silvani, il Megadirettore Galattico, il ragionier Guido Riccardelli, etc), situazioni comiche paradossali (il varo della nave, l’attesa del pullman mattutino, il cineforum aziendale, la puntatina a Montecarlo, la partita di calcio tra colleghi, etc) e trovate narrative ed idiomatiche surreali (la nuvoletta, il consiglio dei dieci assenti, l’acquario umano, la poltrona di pelle umana), ma anche grazie alla capacità di farsi specchio delle italiche mediocrità, di rendere a tal punto caricaturale alcuni vizi e vezzi del cosiddetto italiano medio da usare l’arma del paradosso come strumento d’indagine del paese. Occorre in tal senso ricordare, da un lato, che prima di diventare una saga cinematografica “Fantozzi” è stato un fenomeno letterario di enorme successo, e, dall’altro lato, che Paolo Villaggio, dietro la facciata di comico “disimpegnato” che sembra non prendersi troppo sul serio, conserva una personalità colta e sfaccettata.   

All’inizio degl’anni settanta, in un paese ancora attraversato dall’ubriacatura effimera di un “miracolo economico” in piena fase discendente e dai rigurgiti scomposti di una “consapevole” rivoluzione culturale, “Fantozzi” anticipa di qualche decennio l’implosione della classe media. Pur rimanendo in una cornice inverosimile, il mondo di Fantozzi fa emergere la tendenza di una parte non trascurabile della classe impiegatizia italiana di mostrarsi servile nei confronti dei “padroni”, di pensare a coltivare le giuste amicizie per conservare le rendite di posizione acquisite piuttosto che migliorarsi (e migliorare il paese) attraverso l’etica del lavoro.  Tutto è vestito di grottesco in questo mondo, tutto è portato talmente fuori la plausibilità del reale da farlo somigliare molto da vicino ad un fumetto animato. Ma ciononostante, dall’universo fantozziano emerge il carattere di una nazione attraverso la carica simbolica e farsesca insieme di alcuni suoi aspetti peculiari : l’ostentato ed ostinato disimpegno politico degli impiegati che devono solo obbedire senza pensare (i "padroni" si imitano non si avversano, come dimostra l'isolazionismo di cui viene fatto vittima Polagra, “la pecora rossa della ditta”) ; il carico di cambiali (che Fantozzi misura in kg.) che ognuno è disposto a supportare pur di corrispondere al fascino seduttivo degli status symbol prodotti in serie dalla società dei consumi (farsi l’amante, farsi la barca, farsi il camper, fare le vacanze in luoghi in) ; l’evanescente leggerezza con cui viene occupato il tempo libero (la mania organizzativa di Filini) ; l’attitudine parassitaria degl’impiegati della Megaditta (il Fantozzi sempre oberato di pratiche altrui), la struttura verticistica e tentacolare dell’azienda, regno deputato delle lungaggini burocratiche e dell’alienante anonimia dei capi (basta la panoramica iniziale dell’intero edificio, ma anche i geometrici interni asettici e gli inaccessibili “piani alti”).

Tutto questo per dire (e per ribadire) che prima di essere un personaggio cinematografico, Fantozzi è, a tutti gli effetti, un fenomeno di costume con fondamentali implicazioni sociologiche. È vero che tutto è portato fino al limite estremo della rappresentazione grottesca, ma dietro le iperboli situazionali che venano di spirito surreale la struttura narrativa, è possibile rinvenire il desiderio piccolo-borghese di giungere ad una riconosciuta solidità economica e sociale. Il lavoro impiegatizio come imprescindibile strumento di ascesi sociale ; il rispetto acritico delle gerarchie come intima propensione di potersi sempre rivalere sui sottoposti ; l’obbedienza cieca nei capi come momento di interessata accettazione del proprio ruolo sociale ; il totem del posto fisso come premessa essenziale per la completa omologazione sociale. Avere ambizione, sentirsi importante, mostrarsi servile, essere conformista, sono tutti aspetti che appartengono per loro natura alla condizione piccolo-borghese, aspetti che si legano, sia alla legittima aspirazione di ognuno di migliorare la propria condizione sociale, che alla degradazione morale cui si è disposti a scendere pur di arrivare allo scopo. Il mondo di Fantozzi è assolutamente partecipe di queste attitudini tipiche del cosiddetto italiano medio,  con la sua variegata galleria di personaggi, sciocchi figuri totalmente privi di autonomia, che prima di essere schiavi sul luogo di lavoro sono schiavizzati in vita da un’esistenza passata a rincorrerere mode e a praticare l'arte dell'accumulo. Un mondo goliardico che tocca vette di ricercata visionarietà tanto sono fantasiose le innumerevoli trovate surreali che formano la messinscena satirica (la nuvola personale ; l’acquario umano ; Fantozzi che vibra nell’aria dopo aver bevuto più di 40 casse di acqua gassata ; Fantozzi che va a sbattere contro i faraglioni capresi provocando un terremoto ; Fantozzi che diventa uomo proiettile in un circo ; Fantozzi che reinterpreta la scena della culla de “La corazzata Kotiomkin” ; tutte le competizioni sportive che si trasformano in un ecatombe, etc). Un mondo dove tutto è guardato con l’occhio deforme del comico che ama scomporre a suo piacimento il modo canonico in cui si è soliti guardare il mondo. Il ragionier Ugo Fantozzi è il centro di questo modo ilare retto su gag e battute sparate a raffica, a modo suo, con la sua indole remissiva e la sua goffaggine catastrofista, sia quando è la vittima designata di una società bisognosa di creare capri espiatori di comodo, che quando è lui stesso l’artefice unico delle sue mirabolanti disavventure. Fantozzi è sempre in mezzo, tra il dirigismo reazionario dei “padroni” e la calcolata complicità dei colleghi di lavoro, tra le angherie di chi lo apostrofa senza mezzi termini come una “merdaccia” e i piccoli soprusi di chi ha bisogno di prendersela con lo “scemo di turno” per sentirsi una persona migliore

È sempre una questione di gerarchie nel mondo di Fantozzi, di persone che possono assoggettare chi sta anche solo un gradino più sotto. Al vertice estremo c’è il Megadirettore Galattico, una divinità mitizzata come se si trattasse del diretto discendente di Dio. Appena sotto ci sono le alte cariche dirigenziali, quelli temuti e venerati insieme, delle figure eteree che il massimo che concedono agli operai è di invitarli a qualche loro festa (con Fantozzi e Filini sempre presenti naturalmente) per autoconvincersi della loro “infinita magnanimità”. Poi vengono i direttori di sezione, esseri frustrati per natura, degli aguzzini sadici di cui gli impiegati hanno soggezione ma da cui dipende tutto il loro destino lavorativo. Ancora sotto, la vasta schiera di impiegati, dei servi sciocchi che rispondono sempre sissignore, dei burocrati ingrigiti che credono di fare i furbi facendo i lavativi. Al punto più basso della piramide aziendale c’è il ragionier Ugo Fantozzi dell’ufficio sinistri, la spugna che assorbe le impurità di ognuno, il parafulmine che accoglie tutte le scorie sociali. Il marito e il padre disamorato, l’uomo insoddisfatto, l’impiegato appiattito. La cavia umana che fa deflagrare in una grassa risata liberatoria la grottesca rappresentazione della condizione esistenziale dell’uomo medio.  

Riconducendo il tutto alla sua più popolare dimensione cinematografica, credo si possa dire che i primi due film della saga (“Fantozzi” e “Il secondo tragico Fantozzi”)diretti dall’arguto Luciano Salce siano degli autentici capolavori nel genere, fosse solo perché “fantozziano” è un termine entrato nel vocabolario corrente per indicare un tipo impacciato, goffo nei movimenti, incline a combinare disastri, dall’indole servile e remissiva. Film assolutamente sui generis, non riconducibili a nessun filone conosciuto se non al carattere visionario cui può dotarsi la comicità spinta fino all’inverosimile. Film che non possono essere valutati separatamente (e io, solo per pratica convenienza, ho usato la scheda del primo), rappresentando insieme il quadro completo del mondo creato da Paolo Villaggio intorno alla figura tragicomica del ragionier Ugo Fantozzi. Il terzo capitolo (“Fantozzi contro tutti”, con Neri Parenti e Paolo Villaggio alla regia) conserva delle ottime trovate (la gara ciclistica organizzata dal Visconte Cobram, il truce panettiere Cecco, la brava Milena Vukotic nel ruolo di Pina), il quarto è passabile ma già stiamo nello stancante. Quelli venuti dopo, per stessa ammissione di Paolo Villaggio, sono stati fatti per puro scopo alimentare. Film che hanno semplicemente saccheggiato da quel mondo, senza però farne emergere l’originalità dei contenuti linguistici e narrativi, senza saperne riproporre il ritmo, la verve comica, la capacità di satireggiare in maniera crudele sulla mediocre esistenza dell’italiano medio.  

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