Regia di Fiorella Infascelli vedi scheda film
Troppo televisivo. Pur di accalappiare il grande pubblico, la Infascelli impasta troppe scene scontate. Su di un tema che comunque è leggendario, per valore civico e storico, come il maxiprocesso imbastito negli anni ’80 da Falcone e Borsellino contro il grosso della mafia: un caso unico – per come erano naufragati i precedenti tentativi di processare la mafia in modo sistematico.
Rubini recita molto bene, come sempre. Ma non è attorniato da gente all’altezza, compreso un Popolizio debordante, con una recitazione sopra le righe, vittima – come sempre - delle sue stesse fastidiose smorfie accentuate.
Certo, non tutto è da buttare. Di buono c’è l’intento civile, che passa con merito – pur risultando davvero significativo solo alle medie (o agli istituti professionali, per dire), il che non è poco. Ma la materia trattata meriterebbe un ben più alto profilo.
Da apprezzare è pure la vena claustrofobica, che rende bene l’alienazione cui è costretto il servitore della giustizia, angariato dalle minacce che gli arrivano dai delinquenti stessi. Il che fa ben capire quanto parti significative dello Stato siano colluse - se non controllate - dai mafiosi stessi.
Tutto ciò è ben scandito nella esibizione della vita quotidiana, così pesante, di tali meritorie figure, quelle dei giudici popolari: le quali hanno (qui come altrove) mostrato – e mostrano, se non sono inquinate dal veleno della corruzione, frequentissimo in Italia – un coraggio straordinario, più forte della minaccia delle straordinarie forze mafiose italiane, tra le più potenti, inique e sanguinarie al mondo.
Positiva è pure la celebrazione del diritto, che non può procedere mai per teoremi, né pregiudizi, né sospetti che non siano adeguatamente provati.
Ma la percezione del didascalismo forzato, come di una certa faciloneria strapaesana, non spariscono mai da questo film.
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